Il capo di Italgas ci spiega perché l'Italia non deve avere paura dell'embargo del gas russo
"L’indipendenza energetica è data dalla capacità di un paese di avere il maggior numero possibile di fonti di approvvigionamento e le rinnovabili su cui ha scommesso l’Italia ci offrono la possibilità di avere una diversificazione migliore anche rispetto ai paesi che vivono di nucleare”, ci dice Paolo Gallo
La domanda in fondo è tutta lì: si può fare? Paolo Gallo, amministratore delegato di Italgas, la più importante tra le società italiane specializzate nell’attività di distribuzione del gas, dice che rinunciare al gas russo non è semplice, ovviamente, e costringerebbe l’Italia a fare scelte complicate, difficili, toste. Ma in questa conversazione con il Foglio, Gallo spiega che l’Europa, e ovviamente anche l’Italia, hanno il dovere di non escludere nulla. E per provare a rispondere alla domanda iniziale – l’embargo del gas russo: si può fare o no? – Gallo invita a riordinare le idee, invita a mettere insieme i numeri e invita a guardare rapidamente al futuro. “La guerra in Ucraina – dice Gallo – ha riportato in primo piano il tema dell’eccessiva dipendenza dell’Europa da un solo fornitore e la necessità di vincere l’inerzia che ha determinato questa situazione. Quest’urgenza ha indotto la Commissione europea a tracciare un percorso chiaro per sostituire da qui al 2030 i 155 miliardi di metri cubi di gas naturale che l’Europa ha importato nel 2021 dalla Russia. Per farlo, aumenteranno di 50 miliardi le importazioni di Gnl da Qatar, Stati Uniti, Egitto e Africa occidentale. Aumenterà di 10 miliardi di metri cubi il gas naturale importato via tubo da fonti alternative a quelle russe (soprattutto Azerbaigian, Algeria, Norvegia e Libia). Aumenterà di 35 miliardi la produzione di biometano. E aumenterà di 20 milioni di tonnellate la disponibilità di idrogeno (tra importato e prodotto) corrispondente a 34-68 miliardi di metri cubi di gas naturale. Per quanto riguarda l’Italia, i miliardi di metri cubi di gas provenienti ogni anno dalla Russia a cui bisognerebbe rinunciare per far fronte a un embargo sono 29. Rinunciare a questi 29 miliardi, sulla carta, come numero complessivo, potrebbe essere anche fattibile, ma il problema non è il numero generale ma è nel riuscire a soddisfare la domanda di punta che si registra nei mesi più freddi e che in media è tre o quattro volte più alta rispetto a quella che è la domanda più bassa che si registra nei mesi più caldi. E se dovessimo fare i conti con l’embargo, una volta che si è fatto tutto ciò che era possibile fare per lavorare sulle maggiori importazioni, e dunque sull’offerta, non resterebbe che lavorare sull’utilizzo del gas, e dunque sulla nostra domanda. L’embargo non è un’utopia e di fronte a un dramma come quello ucraino onestamente non mi stupisco che sia un’opzione al vaglio”.
Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, l’Unione europea ha pagato alla Russia più di 20 miliardi di euro solo per le importazioni di gas e la Commissione europea ha pubblicato da pochi giorni una strategia molto ambiziosa per rendersi indipendente dal gas russo entro la fine del 2022 e tagliare entro l’anno due terzi delle sue importazioni di gas dalla Russia.
Ma oltre ad aspettare il taglio delle importazioni, lavorare a livello europeo a un tetto relativo al prezzo del gas potrebbe essere una buona idea. O no? “Combattere le speculazioni con un price gas penso sia giusto e penso che sia un’operazione da perseguire”. “Quello che però dobbiamo mettere a fuoco, in queste settimane, in queste ore, è che il mondo energetico ha bisogno di interventi di lungo termine, orientati a governare il nostro mondo non sulla base ciò che serve nei momenti straordinari ma sulla base di ciò che serve nei momenti ordinari”. E lavorare sull’ordinarietà, sostiene Gallo, significa lavorare a una transizione energetica ed ecologica che metta da parte l’ideologia e concentri la sua attenzione su due parole chiave: efficienza e neutralità.
“La pandemia ci ha mostrato in tutta la sua evidenza quanto sia imprescindibile l’innovazione tecnologica, che nel nostro mondo si traduce in trasformazione digitale di asset, processi e servizi. Allo stesso modo, gli choc generati dai mercati energetici hanno rimarcato l’urgenza di azioni volte a favorire la diversificazione delle fonti e la decarbonizzazione dei consumi”. Tutte le fonti? “Tutte le fonti, sì”. Anche il nucleare? “La strada del nucleare va certamente seguita a livello di ricerca e di sviluppo per il futuro e anche su questo terreno non servono ideologie. Ma rispetto a chi oggi sostiene che i paesi che hanno il nucleare abbiano una indipendenza energetica migliore rispetto alla nostra rispondo che le cose non stanno così: l’indipendenza energetica è data dalla capacità di un paese di avere il maggior numero possibile di fonti di approvvigionamento e le rinnovabili su cui ha scommesso l’Italia offrono al nostro paese la possibilità di avere una diversificazione migliore anche rispetto ai paesi che vivono di nucleare”.
Il terreno migliore su cui, secondo Gallo, si può osservare in modo cristallino quali sono i danni generati dall’ideologia, dall’immobilismo e dall’inefficienza si trova su un piano particolare che coincide con una parola che solitamente trova poco spazio all’interno del dibattito pubblico: il biometano (un gas prodotto da scarti industriali, alimentari o animali). “In attesa che la produzione di idrogeno diventi competitiva rispetto ad altre fonti di energia, il biometano – dice Gallo – è una fonte di energia rinnovabile, matura, immediatamente disponibile e in grado di generare rapidi effetti sulla diversificazione energetica. Per avere un’idea del fabbisogno che potrebbe andare a ricoprire il biometano parliamo di un quantitativo analogo a quello che arriva oggi con il Tap e che nel 2030 sarà pari a 8 miliardi di metri cubi all’anno. In Italia sono 54 gli impianti di produzione di biometano, con un aumento di 19 unità rispetto al 2020, e una produzione annuale di 479 milioni di metri cubi (0,6 per cento della quota di consumi di gas). Quello a cui bisogna lavorare concretamente è l’accelerazione dei processi di autorizzazione degli impianti. In Italia servono in media tre anni per ottenere il via libera a un intervento che ne richiede due per essere completato. E questo non vale solo per gli impianti di grandi dimensioni, ma anche per quelli di taglia più ridotta che richiedono spesso più tempo per gli iter burocratici che per la loro effettiva realizzazione (in un rapporto medio di uno a tre o a quattro). Una condizione sinceramente insostenibile. Per questo torno a dire che la transizione ecologica del futuro non la si può affrontare caricando il paese di ideologia. L’ideologia è spesso sinonimo di immobilismo. L’immobilismo è spesso sinonimo di status quo. Lo status quo impedisce di generare competizione tra le fonti di energia. E la scarsa competizione tra le fonti energetiche impedisce di lavorare all’indipendenza energetica dell’Italia mettendo al centro tutto quello di cui oggi ha bisogno: tecnologia, efficienza, neutralità. La guerra portata dalla Russia in Ucraina è un acceleratore delle nostre responsabilità. Embargo o non embargo, l’Italia può farcela”.