una specie di nato-nomics?
Così si può far funzionare il mercato libero tra chi condivide gli stessi valori. Isolando i regimi
Quali sono i riflessi della dottrina Yellen, un nuovo manifesto del commercio libero ma sicuro, sull'Unione europea. E che ruolo può ritagliarsi l'Italia
Con questo articolo Dario Di Vico inizia la sua collaborazione con il Foglio.
Agli esperti di commercio internazionale l’espressione era già nota ma a sdoganarla è stata il segretario del Tesoro americano, Janet Yellen. Friendshoring come manifesto del commercio libero ma sicuro. Ovvero non permettere più ai paesi retti da autocrati di utilizzare la loro posizione di mercato nelle materie prime, nella tecnologia o nei prodotti-chiave per avere il potere di sconvolgere la nostra economia o usarlo come una leva geopolitica indesiderata. Il riferimento è ovviamente alla “petropolitica” russa ma anche ai seminconduttori di Taiwan e alle politiche cinesi di accaparramento delle terre rare. Ma se è chiaro l’avversario e l’obiettivo di ridurne il potere di intermediazione, non è altrettanto lineare cosa voglia dire in concreto friendshoring e come possa concretizzarsi.
Si può ipotizzare che gli Stati Uniti, o meglio il loro governo, favorirebbero l’affidamento delle catene di approvvigionamento a un gran numero di paesi amici che condividono con Washington le alleanze internazionali, le norme che regolano il commercio e più in generale i valori di un’economia liberale. Una specie di Nato-nomics? Se l’invasione russa dell’Ucraina ci ha risvegliato dal torpore degli ultimi vent’anni e ci ha dimostrato come (purtroppo) lo sviluppo dei commerci non crei di per sé le condizioni di buone relazioni internazionali, con la dottrina Yellen si passa a un’economia globale dove lo scambio può essere libero solo se sorretto da valori condivisi e condizioni di parità. I mercati, dunque, da soli non ce la fanno a garantire sicurezza, servono nuove regole come, nell’esempio fatto da Yellen, una nuova Bretton Woods ma anche un profondo rinnovamento di istituzioni come il Fondo monetario e la Banca mondiale.
Yellen a parte, il tentativo americano di riorganizzare e internalizzare le supply chain secondo nuovi criteri e in chiave di autosufficienza nei confronti del Dragone cinese non è nuovo e forse manca ancora un bilancio esauriente di questi sforzi. L’impressione è che questo generoso commitment non sia stato finora costellato da successi al punto da poter dire che gli States sono ridiventati la potenza manifatturiera di una volta. In seconda istanza, da tempo Washington ha maturato l’idea di coinvolgere i paesi asiatici amici o comunque considerati più affidabili per rilocalizzare pezzi di catene del valore in precedenza monopolizzate dalla Cina, ma adesso la tracotanza e la pericolosità di Vladimir Putin hanno di fatto trasferito questo dibattito in zona nostra, proiettandolo sulla riorganizzazione delle grandi filiere nel Vecchio continente. Ma anche in questo caso, e sicuramente in maniera ancor più netta rispetto al trasloco delle produzioni in paesi asiatici come il Vietnam, emergono subito un tema e un quesito di competitività.
Una supply chain riorganizzata su base valoriale è occidentalmente corretta ma ha dei costi che vanno affrontati e risolti sul piano operativo, non c’è possibilità di chiudere entrambi gli occhi. Per dirla con una battuta: deglobalizzare costa e bisogna saperlo. Un’ulteriore considerazione che viene dagli esperti riguarda i cambiamenti che stanno investendo le supply chain e in particolare la loro dipendenza rispetto al passato da materie prime come il nichel, il cobalto e il litio.
Solo per limitarci a un esempio: gli europei sarebbero disposti a ospitare sul loro territorio impianti di raffinazione del litio oppure oltre ai costi della deglobalizzazione, ai divari di competitività non saremmo costretti a misurarci con nuovi effetti Nimby? La prima e ovvia considerazione che viene da fare riguarda l’estrema difficoltà di “scaricare a terra” i valori ovvero di passare da una nuova strategia geopolitica del commercio-libero-ma-sicuro a piani industriali compatibili con il contenimento dell’inflazione, la competitività dei prodotti e lo sviluppo dei mercati. La “vecchia” divisione internazionale delle produzioni e del lavoro questi dilemmi li aveva risolti, seppur a modo suo. Se si vuole delineare un’alternativa realistica bisogna anche elaborare nuove risposte che evidentemente non possono ribaltare i termini basici dell’economia solo in nome della sicurezza strategica. E una strategia di friendshoring presuppone anche un rapporto con le opinioni pubbliche occidentali che riabbini i valori delle società aperte con nuove convenienze o persino nuovi paradigmi, pur di attrarre i nuovi investimenti necessari a ridisegnare le catene del valore. Le élite occidentali sono abituate a concepire i modelli di sviluppo lungo un alfabeto imperniato sull’integrazione mondiale e non bipolare.
Andando avanti nella simulazione degli effetti della dottrina Yellen è interessante valutare anche un punto di vista italiano, inteso come opportunità che si potrebbero aprire per rafforzare quella che è comunque la seconda manifattura d’Europa (ed è il motivo per cui tedeschi e francesi ci fanno triangolare, almeno in più d’una occasione). Già con l’investimento (privato) previsto da Intel in Europa per guadagnare prossimità con i mercati di sbocco si è generata una specie di negoziato che ha visto alla fine una sottodivisione delle produzioni con l’Italia che potrà sì giovarsi di nuovi impianti ma con minore valore aggiunto di quelle che saranno ospitate in Francia e Germania. Domanda: in caso di friendshoring europeo non è decisamente più facile che i nuovi impianti di fornitura finiscano per essere dislocati in Polonia o in Ungheria piuttosto che in Italia per le note differenze di costi? La risposta è scontata ed è la dimostrazione che gli “amici degli Stati Uniti” comunque operano in regime di competizione aperta tra loro e che pur in uno scenario di rivisitazione della globalizzazione il derby nel Vecchio continente si giocherebbe sempre sui fattori di competitività. A meno di non supporre/predisporre un combinato disposto fra la tradizionale flessibilità del sistema manifatturiero italiano e strumenti normativi come le zone speciali o marchingegni analoghi.
Un’ultima considerazione può essere estesa ai riflessi della politica di friendshoring sulle scelte di Bruxelles. Per Joe Biden e Yellen, l’Ue è un pezzo del puzzle del mondo libero mentre la Commissione von der Leyen, specie su spinta dei francesi, coltiva un’idea di politica industriale autonoma e in parte in concorrenza con gli States. Si pensi al Chips Act voluto dal commissario francese Thierry Breton. Queste visioni sarebbero destinate a incontrarsi o a confliggere con la Nato-nomics? Bella domanda. Chissà se nell’annunciata visita di Mario Draghi in America l’agenda delle priorità inevitabilmente schiacciata sull’emergenza di individuare una soluzione al conflitto aperto in Ucraina consentirà qualche ridondanza. In questo caso sarebbe sicuramente stimolante se i colloqui italo-americani finissero per essere anche un primo test della dottrina Yellen.