Paura del friendshoring
Meno merci uguale più eserciti. Aver paura della nuova globalizzazione
Quando il libero commercio è meno libero le guerre sono più vicine. Una risposta all'articolo di Dario Di Vico
Ieri il Foglio ha dedicato una utilissima analisi dell’ottimo Dario Di Vico al tema del friendshoring lanciato a mo’ di manifesto dalla segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen. E’ l’idea di ricentrare il libero commercio dei beni e servizi tra paesi di comune standard democratico e rispettosi di diritti e libertà. Apparentemente un manifesto logico, visto ciò che la tragica invasione ucraina dell’orco Putin ha messo in moto. In realtà, tonnellate di letteratura economica accumulatasi in questi anni dicono il contrario. Visto che è un tema immenso, procedo solo per punti generali. Premetto per chiarezza che chi verga queste righe è occidentalista, europeista e atlantista convinto.
Ci sono innanzitutto due equivoci geostrategici, alla radice del friendshoring. Il primo è credere che il libero commercio (attenzione poi che da limiti a beni e servizi deriverebbero inevitabilmente anche limiti a libertà dei capitali) organizzato secondo patenti di conformità liberal-occidentale sia un passo in avanti, una risposta pressoché obbligata alla dipendenza da tirannie irrispettose di ogni diritto umano. Di fatto, è vero l’opposto: l’amplissima liberalizzazione del commercio e la quasi totale libertà dei capitali nel mondo degli ultimi 20 anni ha determinato i suoi effetti enormemente benefici proprio nei paesi meno sviluppati e sconfitto la morte per fame in Cina e (quasi del tutto) in India. Persino nella Russia attuale, neozarista ma a controllo stalinista di ogni libertà, ad andarsene sono (non troppe) migliaia di coloro che hanno conosciuto benefici e sfide della globalizzazione. Questo primo equivoco si fonda poi su una singolare sottovalutazione di ciò che ne deriverebbe: una globalizzazione unipolare a guida e standard Stati Uniti non sarebbe mai accettata oggi né da Cina e india, né dalla maggioranza dei paesi africani e asiatici. Geopoliticamente, un clamoroso autogol.
Il secondo equivoco è su ciò che avverrebbe negli associati a tale modello. Per i paesi occidentali scarsamente dotati di risorse energetiche e comunque dipendenti da commodity minerarie, agricole e scarsi di eccellenze in tecnologie di punta a cominciare da quelle digitali, l’Italia in primis, si genererebbero forti pulsioni a misure politiche a forte tasso di sovranismo populista.
Già da noi abbiamo esteso i poteri pubblici di golden power praticamente a qualunque settore produttivo e dei servizi, figuriamoci cosa avverrebbe scoprendo che non possiamo diversificare forniture di gas neanche da Algeria, Egitto e Congo. Una mecca, per i partiti populisti.
Infine, la fragilità economica del friendshoring americano sta in ciò che analizza Di Vico. Per le modalità in cui la manifattura italiana e tedesca hanno costruito il loro successo negli ultimi 20 anni (in Italia soprattutto nel post 2011, quando le imprese avevano incorporato la dura lezione dell’euro e del 2008, scegliendo la via della maggior patrimonializzazione e della produttività per crescere nelle catene del valore e delle forniture), la porta chiusa verso il mondo “illiberale” comporterebbe prezzi e rischi giganteschi. Pensate solo alle oltre 2 mila imprese italiane dell’automotive, già oggi alle prese con obiettivi del così detto “Fit for 55” definiti quando la follia dei prezzi energetici era enormemente più contenuta di oggi. Per loro, fornitori di componentistica a tutti i big player tedeschi dell’auto, l’uscita di quelle case dalla produzione diretta con propri stabilimenti in Cina sarebbe un altro duro colpo. Queste preoccupazioni sono vivissime nei confronti riservati che si svolgono continuamente tra le diverse confindustrie di Italia, Germania e Francia. E sono diventate altissime, all’idea di confondere le politiche di difesa militare – nessuno mette in discussione la Nato e i suoi compiti – con quelle dell’economia multipolare.
Non è un caso che nelle assemblee di Confindustria in questi giorni il presidente Carlo Bonomi ripeta frasi come questa: “Gli scricchiolii già in precedenza molto forti nella globalizzazione e nel commercio mondiale si sono trasformati in fratture sismiche a causa dell’invasione russa. Il rischio non è il ritorno alla Guerra fredda di un mondo diviso in due. Ma di avere l’occidente da una parte e dall’altra l’economicamente debole ma militarmente instabile Russia aggregata alla Cina. Con una riconfigurazione generale delle catene del valore e commerciali su cui l’industria europea e la manifattura italiana hanno costruito negli ultimi 20 anni i propri successi”.
E’ vero, il Wto dopo l’estensione alla Cina 20 anni fa non ha più chiuso un solo round di accordi di liberalizzazione del commercio. Ma l’idea di Trump di abbattere l’enorme deficit commerciale Usa con la Cina liquidando la multilateralità e ricentrando il commercio su rapporti bilaterali e muscolari tra grandi potenze continentali ha non solo fallito l’obiettivo, ma era ed è avverso all’Europa e alla sua industria. In Italia più che altrove: grazie alla nostra produttività zero o negativa in ogni altro settore al di fuori di industria e servizi finanziari, dalle crisi ci riprendiamo solo grazie al traino di manifattura ed export, stante la fragilità della domanda interna. Nessuno nel mondo industriale e finanziario europeo pensa a uno scontro con gli Stati Uniti su questo tema: ma l’Europa deve costruire un suo percorso pubblico-privato di eccellenza e autonomia tecnologica, energetica e di commodity, che non s’inventa da un giorno all’altro. E deve, come Europa, farlo pesare davanti agli Stati Uniti difendendo l’economia multipolare: perché dove non passano le merci arrivano poi più facilmente gli eserciti degli orchi.