Le sanzioni alla Russia funzionano, ne servono altre sul petrolio

Luciano Capone

Le misure dell'Europa stanno già producendo effetti sull'industria petrolifera russa: Rosneft ha difficoltà a vendere, il greggio Ural si vende a prezzo di sconto e la produzione è già crollata. Per questo l'Europa sta pensando a ulteriori restrizioni. Mosca ormai è solo una pompa di benzina e colpire il petrolio significa fermare Putin

La prossima settimana dovrebbe arrivare il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia. La grossa novità è che, come ha anticipato la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen, verrà colpito il petrolio. Non è ancora chiara la forma: se attraverso un graduale phasing-out (come fatto per il carbone); o un divieto all’import dei prodotti raffinati e una più dilatata nel tempo eliminazione del greggio; o sanzioni indirette, ad esempio su trader e logistica. È più remota l’ipotesi di un dazio o di un tetto al prezzo, ma qualcosa ci sarà visto che la Germania, attraverso il vice cancelliere e ministro dell’Economia Robert Habeck, ha annunciato che non metterà un veto.

 

In ogni caso già le sanzioni introdotte da febbraio stanno mettendo in difficoltà l’industria petrolifera russa. Nei giorni scorsi il Wall Street Journal ha scritto che Rosneft, il colosso petrolifero che da solo contribuisce per circa il 20% delle entrate di bilancio della Russia, non è riuscito a vendere un grosso lotto di petrolio. La compagnia, guidata da un uomo vicino a Putin come Igor Sechin, incluso nella blacklist europea, aveva messo sul mercato 38 milioni di barili, pari a circa 19 grandi petroliere, richiedendo il pagamento in rubli. Ma non ha trovato compratori. I grandi trader e gli operatori della logistica si stanno già sganciando dal mercato russo per non restare impigliati nel meccanismo attuale di sanzioni. Ad esempio il colosso anglo-olandese Shell, rimasta impigliata nelle polemiche per l’acquisto di un carico di greggio russo dopo l’invasione dell’Ucraina, ha annunciato prima una progressiva eliminazione del petrolio russo e un immediato stop all’acquisto di prodotti raffinati, inclusi i combustibili miscelati.

 

Questa, come tante altre scelte autonome degli operatori del settore, per la Russia sta producendo effetti negativi sia sul prezzo sia sui volumi. Per quanto riguarda il prezzo, la Russia è costretta a vendere a sconto di 30-35 dollari al barile rispetto al prezzo di mercato: secondo i dati Unem da fine febbraio, cioè dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, i prezzi dei principali greggi mondiali hanno registrato un forte aumento da circa 90 dollari a oltre 110 dollari al barile; mentre il petrolio russo Ural è l’unico che ha subito un calo del 3% (ora è venduto a 35 dollari meno del Brent).

 

Il forte ribasso di prezzo, però, non è sufficiente a mantenere inalterati i volumi, come le difficoltà di vendita di Rosneft dimostrano. Anche perché gli altri mercati non sono in grado di assorbire la domanda che manca dagli Stati Uniti, che hanno imposto un embargo al petrolio russo, e all’Ue, che sta riducendo gli acquisti. Nel 2021 oltre il 50% dell’export petrolifero russo è andato in Europa: la Cina conta solo per il 20% e l’India, che ha notevolmente aumentato gli acquisti approfittando dei prezzi di saldo, è un mercato marginale per Mosca. Questa situazione sta spingendo progressivamente le compagnie russe a ridurre la produzione. Secondo le stime dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) l’impatto delle attuali sanzioni, senza quindi considerare le prossime, comporterà una riduzione della produzione di circa 3 milioni di barili al giorno per effetto delle attuali sanzioni su circa 11 milioni di barili al giorno prodotti a gennaio.

 

Il trend è confermato dalle stesse autorità di Mosca. Secondo la Tass, agenzia stampa del Cremlino, solo nella prima metà di aprile la produzione petrolifera ha segnato un -7,5% rispetto a marzo. Nei giorni scorsi il ministro delle Finanze di Putin, Anton Siluanov, ha dichiarato che nel 2022 la produzione petrolifera russa potrebbe calare del 17%, scendendo al livello più basso dal 2004: le proiezioni di Siluanov indicano una media di 9,1 milioni di barili al giorno, quindi circa 2 milioni in meno rispetto al livello di gennaio. Una bella botta per quello che è il secondo esportatore mondiale dopo l’Arabia Saudita.

 

L’effetto combinato delle sanzioni da un lato, che hanno fatto crollare gli altri settori economici, e della guerra dall’altro, che ha fatto aumentare i prezzi energetici, hanno notevolmente incrementato il peso – e quindi la dipendenza – degli idrocarburi nell’economia russa. Nel 2022 oltre il 50% delle entrate del bilancio russo saranno rappresentate dai ricavi dell’oil & gas, rispetto al 36% del 2021. Vuol dire che realmente la Russia sta diventando una gigantesca pompa di benzina, con poco altro. Mikhail Khodorkovsky, l’oligarca che era l’uomo più ricco di Russia e proprietario della società petrolifera Yukos prima di finire in carcere in Siberia e poi in esilio per essersi opposto a Putin, ha detto alla Bbc che un embargo farebbe perdere a Putin “metà delle sue entrate”, con un impatto devastante sul bilancio.

 

È difficile che l’Europa opterà per un embargo immediato, ma anche solo sanzioni più incisive sul petrolio possono dare un colpo notevole all’economia russa togliendo così benzina alla macchina di morte che Putin ha schierato in Ucraina.

 

Di più su questi argomenti:
  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali