giri di nomine
Così Draghi e Giorgetti ridisegnano i vertici di Invitalia e Sace
Arcuri cerca l’exit strategy al Mise, ma senza fortuna. Il premier e il suo passato al Tesoro che ritorna: Turicchi e Giansante verso la promozione. Ma c'è un problema di donne
Che la sua stagione è finita, deve saperlo bene anche lui, se è vero che a chi lo incontra, a chi gli chiede come sta, risponde puntualmente così: “Mi godo questo lento e inesorabile tramonto”. Lo ha ripetuto anche martedì scorso, Domenico Arcuri, quando ha bussato alla porta di Giancarlo Giorgetti per un ultimo, forse non disperato, tentativo. Che certo di ottenere un rinnovo alla guida di Invitalia non c’è modo, ma magari si potrebbe provare a influenzare, a indirizzare la scelta del suo successore, a caldeggiare qualche candidatura. Quella di Fabio Gallia, ad esempio, pare non gli spiaccia affatto. Più dei nomi che girano tra Mise e Palazzo Chigi, come quelli di Antonino Turicchi e di Andrea Munari, l’ex commissario straordinario per l’emergenza Covid gradirebbe proprio il profilo del dg di Fincantieri. E forse proprio la vicenda del colosso triestino aiuta a capire le dinamiche in corso.
Perché come Giuseppe Bono, che è stato al comando di Fincantieri per due decadi, anche Arcuri può vantare i suoi quindici anni da amministratore delegato di Invitalia (“Sotto governi di ogni colore”), e quella longevità di servizio la indica ora come a rivendicare una sorta di diritto a suggerire la rotta da seguire. E però proprio come per la grande azienda cantieristica, anche per l’agenzia pubblica di sostegno alle imprese Mario Draghi ha in mente quella che al Mef chiamano “la bonifica”: cambiare l’aria, insomma, porre termine agli imperi personali. Che poi la rimozione di Arcuri, entro giugno, segni anche l’ennesimo atto di discontinuità rispetto al contismo, in questo piano del governo forse è poco più di un dettaglio.
Anche il metodo resterà lo stesso. Un asse diretto tra Palazzo Chigi, dove a gestire la partita delle nomine sono Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello, la stanza dei bottoni di Via XX Settembre, quella del Tesoro, diretta da Alessandro Rivera, e di rimbalzo la Via Goito dove sta Cdp, il quartier generale di Dario Scannapieco. Con una novità, stavolta: e cioè un coinvolgimento diretto di Giorgetti, protagonista pure lui di questa diplomazia riservata, che valuta e soppesa profili e curriculum. Ricerca che s’è resa necessaria dopo che il candidato da tutti considerato come il più papabile fino a pochi mesi fa, e cioè quello di Bernardo Mattarella, è stato accantonato per una questione di opportunità politica. Un gesto di galateo istituzionale favorito dallo stesso capo dello stato, ansioso di evitare ogni possibile speculazione politica su suo nipote.
Nuova caccia, allora. Quello di Gallia, appunto, è tra i profili vagliati. Ma dopo la sua bocciatura nella partita Fincatieri (era lui che Bono sperava di poter benedire, trasferendosi poi nel ruolo di presidente), sembra difficile possa farcela. Turicchi sarebbe una scelta di draghismo in purezza. Perché il premier lo conosce e lo stima fin dalla metà degli anni Novanta: quando l’allora direttore generale del Tesoro volle nella sua squadra il giovane economista viterbese, che di lì poi avrebbe fatto carriera in vari cda di grandi partecipate – da Autostrade a Leonardo – fino a diventare dg di Cassa depositi e prestiti, prima di trasferirsi ai vertici di Alstom Italia, per poi fare ritorno a casa, cioè al Mef, come capo della direzione Finanza e privatizzazioni. La stessa che era stata guidata anche da quello Scannapieco, pure lui cresciuto nel Tesoro di fine secolo, a cui non a caso Draghi ha voluto affidare Cdp. Altra candidatura di cui si parla molto è quella di Andrea Munari, attuale presidente di Bnl, allievo di Luigi Abete e stimato anche da Romano Prodi: profilo, anche questo spiccatamente finanziario.
Tre uomini, dunque. E questo è un problema, visto che nelle intenzioni del governo c’era un’attenzione all’equità di genere. Istanza che potrebbe invece trovare miglior esito in Sace, per cui la promozione di Alessandra Ricci, dirigente storica della partecipata a cui è stata recentemente assegnata la delega per gli investimenti nel Green new deal. Si deciderà la prossima settimana, in occasione dell’assemblea dei soci fissata per il 12 maggio. Quando, con ogni probabilità, il presidente verrà individuato nella figura di Filippo Giansante, alto funzionario del Mef. Si tornerebbe, anche qui, all’antico. Perché una vecchia consuetudine vuole che a capo di Sace vada il dg del Tesoro, come Draghi sa bene essendo stato anche lui insignito della carica, a suo tempo. Ora spetterebbe a Rivera, dunque. Che però, si vocifera a Via XX Settembre, lascerebbe l’incarico a quello che è, da anni, il suo uomo più fidato in tema di nomine.