(foto di Ansa)

delocalizzazioni al contrario

Reshoring, friendshoring, nearshoring: vocabolario della nuova globalizzazione

Francesco Dalmazio Casini

La crisi delle catene del valore, la tensione geopolitica e l'aumento del costo del lavoro spingono le aziende a tornare a produrre in patria, o almeno in paesi più vicini

“Il reshoring è una parola difficile ma è la parola chiave per inquadrare le sfide che avrà l’Italia nei prossimi mesi”. Così Enrico Letta, intervistato dal Foglio, sul complicato momento del paese di fronte alla crisi in Ucraina. Ed è vero che “reshoring” è una parola complicata. Perché è in un’altra lingua, ma anche perché identifica una tendenza recente, per certi versi in contrasto con il corso della globalizzazione nell’ultimo quarto di secolo. Si può definire il reshoring come la rilocalizzazione della produzione di un'azienda dall’estero al paese d’origine. Fenomeno opposto all’offshoring (delocalizzazione), la rilocalizzazione è sempre più spesso indicata come la via preferenziale per raggiungere l’autonomia nazionale strategica in campo produttivo, specie per quei settori cruciali per la sicurezza di un paese come materiale sanitario, prodotti alimentari e approvvigionamento energetico.

 

Secondo il Centro Studi Confindustria, negli ultimi 20 anni le aziende europee che hanno optato per la rilocalizzazione in patria sono circa 850, con Italia e Francia a fare da capofila. La maggior parte di queste produceva in Asia, circa il 42 per cento, e in misura di poco inferiore in altri paesi dell’Europa orientale, a lungo meta privilegiata di delocalizzazioni da parte dei cugini europei occidentali.

 

A spingere le aziende fuori confine sono stati una serie di fattori economici, come il costo inferiore della manodopera, e legali, a partire dalle minori tutele dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo. Il rientro è sostenuto invece da un mix di ragioni diverse. Intanto la riduzione del divario salariale. Nazioni come la Cina, el dorado delle delocalizzazioni nel primo decennio del 2000, hanno raggiunti livelli di sviluppo quasi occidentali, con conseguente aumento del costo del lavoro, o hanno varato legislazioni a tutela del salario minimo. Per fare un esempio, oggi un lavoratore di Shanghai ha in media uno stipendio più alto di un omologo croato. Sul fronte interno, al contempo, l’automazione a cui si avviano i paesi industrializzati potrebbe abbassare i costi di produzione a casa, favorendo il reshoring.

 

C’è poi un aspetto prettamente strategico. La crisi delle catene del valore ha portato molti paesi sviluppati a riflettere sulla creazione di alternative nazionali. Il blocco alle dogane dei prodotti sanitari durante le fasi acute della pandemia, i costi maggiori del trasporto marittimo sull’onda di quarantene e caro carburanti e le difficoltà nell’approvvigionamento energetico sono fenomeni legati da un filo comune. A questi si sommano i segni una politica economica che si muove sullo stesso binario: piani che implementano un approccio quasi autarchico, “insulare” come lo ha definito il presidente della Camera di commercio dell’Ue a Shanghai Joerg Wuttke, sono sempre più comuni. È il caso del 14esimo piano quinquennale della Cina ma anche del Buy American Act dell’ex presidente Donald Trump.

 

Altre volte lo stato ospitante interviene direttamente ai danni delle aziende straniere per ragioni di sicurezza nazionale, specie quelle attive nei settori del digitale, favorendo i player indigeni su cui può estendere il proprio controllo. Anche su questo fronte, la Cina è in prima linea, con l’imposizione di trafile burocratiche sempre più complesse ai danni delle società occidentali, come denunciato nel position paper della Camera di commercio europea del 2021/2022. Difficoltà volutamente artefatte, che insieme alle durissime regole sul Coronavirus, hanno portato il 23 per cento delle aziende europee a riconsiderare gli investimenti in essere e quelli per i prossimi anni.

 

Tuttavia, non sempre è possibile riportare a casa l'attività. In alcuni casi questo accade perché determinati settori necessitano di materie prime assenti in patria, in altri perché replicare le infrastrutture produttive sarebbe troppo costoso. Ci sono due alternative percorribili. La prima è quella suggerita dalla segretaria del Tesoro Janet Yellen all’ultimo vertice del G20: il friendshoring. Si tratta di rilocalizzare in paesi amici, che condividono il sistema di valori e l’allineamento geopolitico. In questo modo viene ridotta al minimo l’esposizione del sistema produttivo alle rappresaglie economiche di paesi rivali. Ad esempio alcune aziende americane, Apple compresa, timidamente iniziano a rilocalizzare alcuni passaggi della propria filiera dalla Cina verso paesi come Taiwan, India e Vietnam.

 

Se nemmeno questa alternativa è percorribile, si può optare invece per il nearshoring. Come indica il nome, in questo caso si vanno a ridurre i problemi della logistica spostandosi in un posto più vicino al mercato nazionale. Un esempio? Il gigante dei semiconduttori Intel che ha annunciato 80 miliardi di euro di investimenti in Europa per i prossimi dieci anni, con ben tre nuove fabbriche (due in Germania e una in Italia) da costruire ex novo. Una mossa che potrebbe fare da modello per le tante società del settore tech oggi fortemente radicate in Asia.