l'analisi
L'export vola in America ma ora si può fare di più
Più 50 per cento da leccarsi i baffi. I numeri del made in Italy negli Usa mostrano un’opportunità vera per l’economia del Dopoguerra. Il peso del piano Biden e i nuovi equilibri mondiali
Un dato sul commercio estero tra quelli diffusi dall’Istat martedì scorso ha acceso l’attenzione degli analisti: il +50 per cento anno su anno delle vendite del made in Italy negli Stati Uniti. Dato prezioso perché se è vero che riguarda l’intero 2021 acquisisce maggior valore oggi, dopo l’invasione russa dell’Ucraina e alla vigilia di una ridefinizione della geografia del commercio internazionale. Quello che è infatti un elemento congiunturale della penetrazione delle nostre merci oltreoceano assume una valenza strategica, un auspicabile indizio di “relazione speciale” Italia-Usa.
Come è noto il dibattito sulla nuova divisione internazionale delle produzioni è ricco. Il segretario al Tesoro Janet Yellen ha lanciato l’idea del friendshoring, dell’applicazione di un criterio preferenziale nella riorganizzazione delle catene del valore a favore dei paesi amici. Più limitatamente in Italia il Pd, tramite il suo segretario Enrico Letta e il responsabile economico Antonio Misiani, si è pronunciato per la creazione di una sorta di Agenzia del reshoring che punti a migliorare l’attrattività italiana sia di investimenti dal prato verde sia di rientro di produzioni prima delocalizzate. Un osservatore disincantato potrebbe sostenere che non c’è niente di nuovo sotto il sole perché un Desk Italia grosso modo con le stesse funzioni dell’ipotizzata Agenzia già aveva mosso i primi passi al tempo del governo Letta. E il reshoring era una delle 102 idee per il rilancio dell’Italia, al secolo Piano Colao, pubblicate nel giugno 2020.
Ma forse conviene fare professione di ingenuità, riavvolgere il nastro e domandarsi come si giustifica il +50 per cento di cui sopra. Le risposte che vengono dagli addetti ai lavori ci parlano di un’accoglienza per i beni italiani piuttosto favorevole dentro un più generale fenomeno di “domanda calda” negli States e di alcune “movimentazioni occasionali” (leggi singole commesse della cantieristica) che spiegano il salto ed evidentemente ci sconsigliano di considerarlo un upgrading strutturale. Detto questo però gli Usa sono un mercato che ha raddoppiato i volumi dal 2001 a oggi e anche quello con il maggior potenziale inespresso, con un unico altro paragone possibile (la Cina che vale però solo 13 miliardi). E’ il mercato nel quale in sostanza vendiamo meno di quanto potremmo e dovremmo. E anche in questo caso con un rapido flashback possiamo tornare agli anni di Carlo Calenda ministro dello Sviluppo economico e a una diagnosi dell’epoca secondo la quale in definitiva le vendite dell’Italia erano di fatto concentrate su 3-4 stati dell’Unione e non spalmate in maniera equilibrata. Per avere sotto mano qualche numero può essere utile ricordare che vendiamo negli Usa per circa 50 miliardi di euro e con il 10 per cento del nostro export gli States sono il terzo mercato di sbocco dopo i due paesi renani. E attingendo al ricco materiale di documentazione della Sace si possono facilmente individuare i 3-4 poli commerciali del made in Italy in America: il New Jersey, New York, la California e il Texas.
Guai però a pensare che il nostro export americano sia fatto solo di moda e design, è la meccanica strumentale a comandare e da sola a rappresentare un quarto delle vendite seguita da chimica, mezzi di trasporto e solo dopo da alimentari e vino. Se è scontato che sia la comunità italo-americana a rappresentare il big consumer di cibo, arte e pelletteria made in Italy, è interessante annotare come siano cresciute le vendite di prodotti farmaceutici nel Kentucky specializzato nell’innovazione delle scienze della vita, come un peso lo eserciti il Michigan grazie agli acquisti di beni di investimento legati alla presenza del gruppo Stellantis e come il Texas compri valvole e turbine per l’industria dell’oil & gas e componentistica destinata ad aerei e aerospazio.
Se questo è in sostanza lo stato dell’arte, dopo che ci siamo lasciati alle spalle gli anni dei dazi minacciati e solo in parte attuati da Donald Trump, come si può portare a casa il “valore inespresso” della relazione commerciale e oggi decisamente geopolitica tra Roma e Washington? Secondo le elaborazioni della Sace è vero che il mercato del real estate americano sta tenendo e supportando specifiche filiere italiane, quella della ceramica ad esempio, ma le maggiori fiches tricolori vanno puntate sull’Infrastructure Investment and Jobs Act dell’amministrazione Biden. Non tanto evidentemente come diretta acquisizione di lavori nelle grandi opere (con l’eccezione di Webuild in Texas) ma come forniture indirette alla realizzazione di reti stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali. E gli stati più interessanti sono New Jersey, California e Pennsylvania. Il Piano Biden prevede inoltre investimenti nelle energie rinnovabili e anche in questo caso si pronosticano buone chance per le produzioni italiane degli apparecchi elettrici e della meccanica strumentale.
Se queste sono le principali direttrici la fenomenologia del commercio fornisce altri spunti, come un buon apprezzamento delle bollicine italiane in Pennsylvania, ma seguendoli si rischia di finire nell’aneddotica. Meglio riflettere sui mutamenti di scenario del commercio internazionale a partire dalla considerazione che nel mondo piatto à la Friedman le chance del sistema Italia erano esclusivamente assegnate alla competitività delle nostre filiere e alla loro capacità di esprimere qualità sistemica, ora nella nuova mappa industriale che si va delineando si prospetta per noi l’inedita possibilità di un dividendo sia geopolitico sia commerciale. Che non può certo prescindere dal ritmo dell’innovazione che il nostro sistema industriale deve mantenere e incrementare ma che vorrebbe dire per noi ragionare, per una volta, come fanno i cugini del grande triangolo manifatturiero d’Europa, tedeschi e francesi. E non accontentarsi di essere solo i loro migliori e più coccolati fornitori.
tra debito e crescita