Guerra di Putin e transizione, quanto costa uscire dal petrolio
Perché produrre di più se il mondo non deve più investire un euro nell’energia fossile? Perché dietro il muro contro muro bellico sull’energia si consuma una bella fetta del nostro futuro
Cara Europa, fermati. Le tue sanzioni ci hanno imposto gravi danni, ma l’embargo totale farà male a entrembi. Per tanto e tanto tempo. “Le guerre possono finire presto, ma dopo aver distrutto il duro lavoro di generazioni. Non ha alcun senso”. Vagit Alekperov, l’oligarca che ha il petrolio nel sangue, fino a un mese fa alla guida del colosso russo Lukoil, scende così in campo, con toni alla Tolstoi, per sottolineare che “l’Europa non può fare a meno del petrolio russo”. Ma non ci vuol molto a capire che il vero destinatario dell’intervista al Financial Times è il Cremlino che ha cercato invano, anche con il gesto delle dimissioni, di convincere a non lasciarsi trascinare dall’illusione di una guerra breve.
Un embargo totale, dice, avrà effetti devastanti su Mosca. “La Russia dovrà ridurre la produzione e congelare i pozzi come ha già fatto all’inizio del Covid. Non è possibile sostituire in tempi brevi l'Europa con altri clienti”. Il tutto, per giunta, in un settore che in questi anni “ha sprecato centinaia, se non migliaia di miliardi” portando il mondo sull’orlo del baratro. “Non siamo di fronte a un problema di natura industriale, quale la decarbonizzazione dell’atmosfera o a una crisi temporanea dell’offerta. No, è una gravissima crisi energetica che avrà gravi conseguenze per tutti”. Stop the war, perciò.
Qualche migliaio di chilometri più in là, al miliardario di Mosca risponde un altro grande vecchio dell’oro nero: Daniel Yergin, oggi vicepresidente di Standard & Poor’s per l’energia, da quasi cinquant’anni, cioè dall’uscita di “The Prize”, la vera Bibbia dell’industria Oil. Yergin, ancor oggi temuto e riverito, è tra i più ascoltati tra gli ospiti di Davos, cui ripete la lezione affidata al New York Times e che, per certi versi, riecheggia l’allarme di Alekperov. “Non c’è abbastanza capacità produttiva inutilizzata nell’industria – dice – un po’ come accadde mel 1973. C’è spazio solo per processare 1,8 milioni di barili in più. Si può produrre più petrolio, però se scopri che non lo puoi raffinare diventi nervoso”.
Proprio la situazione che si è creata in questi anni di mancati investimenti per l’incertezza sull’energia può aver spinto Putin a lanciare il blitz. “Chi lo conosce – spiega Yergin – descrive Putin come un grande esperto del petrolio, in grado di tener testa a qualsiasi Ceo. Lui potrebbe aver pensato di cogliere l’occidente in un momento di grande debolezza che la Russia ha provveduto già l’anno scorso a peggiorare”. Ma ha commesso un errore. “Lui pensava che l’Europa avrebbe incassato il colpo come nel 2014. Al contrario ha innescato un processo devastante per la Russia, un paese che era molto più integrato nei flussi dell’economia globale di quanto non si pensasse. Un’integrazione che sta venendo meno, con gravi danni per tutti. A partire da Mosca: resta un grande produttore di petrolio, ma il suo peso nell’economia globale si è fortemente ridotto. E pagherà a caro prezzo la perdita della tecnologia occidentale”.
Anche l’ovest, però, è destinato a pagare gli effetti della guerra o, ancor di più, della mancata transizione. La situazione ci consiglia di accelerare il più possibile l’introduzione delle rinnovabili e l’uso dell’idrogeno. Ma fino a poco tempo fa si pensava alla transizione dando per scontato che ci fosse, nel frattempo, abbondanza di offerta di energia fossile. Al contrario, oggi i governi sono alle prese anche con la crisi degli idrocarburi. E tutto diventa più complicato.
Si fa in fretta, ad esempio, a chiedere all’Opec di pompare di più, anche con l’obiettivo politico di cancellare il ruolo di Mosca che dal 2016 amministra le quote del greggio da estrarre in piena sintonia con l’Arabia Saudita. Certo, conta l’antipatia di Mohammed Bin Salman per Joe Biden che continua a infastidirlo con le inchieste sulla sorte di Adnan Khashoggi, ma il principe Abdulaziz ha facile gioco a dire che quel che conta sono i numeri “Negli ultimi tre anni – dice – la capacità produttiva delle raffinerie è scesa di 4 milioni di barili al giorno, 2,7 milioni dall’inizio del Covid”. Perché produrre di più se, come ha ripetuto ieri a Davos il segretario dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, il mondo non deve più investire un euro nell’energia fossile? Dietro il muro contro muro bellico sull’energia si consuma una bella fetta del nostro futuro, come ci ammoniscono i saggi dell’oro nero. Anche questo andrà messo a carico di Putin e dei suoi amici.