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l'intervista

"La direttiva Ue sul salario minimo non ha conseguenze sull'Italia". Parla Seghezzi (Adapt)

Valerio Valentini

Non solo non c'è l'obbligo per gli stati membri di introdurre una soglia per la paga oraria dei lavoratori, ma nel caso italiano potrebbe non essere neppure conveniente. "Il problema oggi riguarda i giovani: occupiamoci di loro", dice il presidente della fondazione Adapt 

L’obbligo non c’è. E forse, a ben vedere, neppure la convenienza. “Perché i problemi e le storture del mondo del lavoro, specie per i più giovani, sono reali e complessi. Ma credere che una legge sul salario minimo li risolva tutti significa distorcere la realtà”.


Francesco Seghezzi parla con la franchezza di chi conosce la materia, e però riesce ancora a sorprendersi per la grande confusione che si crea intorno alle semplificazioni da social network della politica. Si è detto per giorni che era l’Europa a chiedercelo, il salario minimo. “E invece l’accordo raggiunto a Bruxelles sulla direttiva sui salari minimi – dice il presidente della Fondazione Adapt, gruppo di ricerca su politiche del lavoro e relazioni industriali – non obbliga i paesi, e tanto meno l’Italia, ad introdurre un salario minimo legale. La direttiva obbliga i paesi che hanno un tasso di copertura della contrattazione collettiva inferiore all’80 per cento a implementare un piano di sostegno e di espansione della stessa e, oltre a questo, pone alcuni criteri rivolti ai paesi membri che prevedono un salario minimo legale. Non ci saranno quindi conseguenze sull’Italia, che ha già un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore alla soglia indicata”.


Dunque semmai c’è da chiedersi come si potrebbe, in un paese come l’Italia, introdurre un salario minimo che non svilisca il ruolo dei sindacati stessi. “Considerata la struttura dei sistemi di relazioni industriali in Italia, la quota importante di piccole imprese, la situazione di difficoltà di molte di queste, il rischio che un salario minimo si traduca nella fuoriuscita delle imprese dalla contrattazione collettiva esiste. Sulla carta salario minimo e contrattazione sono di certo complementari, come avviene in molti paesi, ma occorre chiedersi se rischiare in un paese come il nostro nel quale il tasso di copertura della contrattazione, che oltre ai salari garantisce molti diritti per i lavoratori, è ancora per fortuna molto elevato”.
D’altronde ci sarà un motivo se di introdurre un salario minimo se ne parla da anni, ma in modo inconcludente. La misura era nel programma elettorale di Pd e M5s nel 2018. Ma in un anno e mezzo di governo insieme, il Conte II, non ci si è neppure avvicinati alla meta. “Direi che il principale ostacolo politico è l’opposizione della quasi totalità delle parti sociali che temono che il loro ruolo verrebbe in parte marginalizzato. Tecnicamente il problema è il legame tra il salario minimo e la legge sulla rappresentanza che individuerebbe gli attori rappresentativi in attuazione, mai avvenuto finora, dell’articolo 39 della Costituzione”.


E’ da lì dunque che si dovrebbe partire, per varare una legge sulla rappresentanza sindacale e per evitare di risolvere tutto in una polemica elettorale? “La riscrittura di quell’articolo della Carta potrebbe dare efficacia ai minimi tabellari dei contratti sottoscritti dagli attori più rappresentativi. Sarebbe un primo passo, fatto magari seguendo i numeri che l’Inps possiede sul numero di lavoratori che applicano i contatti, lasciando così l’autonomia alle parti sociali senza invasioni di campo”.  


E poi c’è la questione generazionale, che paradossalmente resta, anche stavolta, solo in controluce. Ma proprio i giovani, che sono in gran parte esclusi dalle tutele della contrattazione collettiva, rischiano di non ricevere alcun serio beneficio da una legge sul salario minimo qual è quella ventilata in questi giorni.  “Questo è uno dei nodi centrali. Pensiamo ai giovani tirocinanti, più di 300 mila in Italia, per i quali non esiste un contratto di lavoro ma solo indennità molto basse: per loro non cambierebbe nulla anche se fosse introdotto il salario minimo legale. Così come per i giovani occupati con lavori irregolari, magari con forme di part time involontario ai quali si affiancano molte ore in nero, ferie e straordinari non pagati: anche in questo caso è molto difficile che il salario minimo possa risolvere irregolarità diffuse. La strada quindi è quella da un lato della regolarizzazione di situazioni irregolari, dall’altra quella di generare lavoro di qualità a partire da investimenti in innovazione e capitale umano. Pensare che una legge sul salario minimo risolva questi nodi vuol dire fare una certa confusione”.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.