Critica delle tesi “divaniste” del mercato del lavoro italiano
"Le imprese non trovano lavoratori perché c'è il reddito di cittadinanza" e "per far crescere i salari dobbiamo far crescere la produttività": il senatore del Pd, dati alla mano, smonta le chiacchiere supportate dai partiti
Un amico romano lancia spesso questa sfida: vi dico una frase e voi rispondete “sti cazzi” o “me cojoni”, così vedo se avete capito la differenza. Provo ad applicare il suo gioco a due tesi sul lavoro in Italia. Prima tesi (divanista): “Le imprese non trovano lavoratori perché c’è il reddito di cittadinanza”. Risposta: sti cazzi. Ovvero, non è questo il punto, parliamo d’altro.
Che questa tesi venga sostenuta da Italia viva stupisce; che venga sostenuta da Confindustria spaventa; che venga sostenuta da Montezemolo, sul Foglio del 4 giugno, né stupisce né spaventa. Tanto per iniziare, un quinto dei percettori del reddito di cittadinanza già lavora (fa, per l’appunto, un lavoro povero) mentre circa un terzo non è occupabile (ha altri problemi, come capita in tutto il mondo ai poveri che percepiscono redditi di ultima istanza). Di fronte a questi dati, il divanista di sinistra (sigh) replica che il reddito d’inclusione era meglio del reddito di cittadinanza. Me cojoni, mi verrebbe da dire, avendo disegnato il primo e fatto da relatore di minoranza al secondo. Ma il reddito d’inclusione era sotto-finanziato. Non a caso, il Pd aveva proposto di raddoppiarne le risorse, con un disegno di legge firmato da tutti, anche da chi è poi passato a Italia viva. Quel ddl avrebbe creato gli stessi disincentivi al lavoro del reddito di cittadinanza. Anzi maggiori, perché non aveva l’ingiusta discriminazione contro gli stranieri poveri non residenti in Italia da almeno dieci anni. Ma il welfare serve proprio a questo: ad alzare il salario di riserva delle persone, la retribuzione minima che sono disposte ad accettare (in Italia ci sono altre misure come la Naspi che alzano il salario di riserva, perché nessuno le cita? Non è un cedimento all’ex egemonia culturale grillina?).
A questi ragionamenti, il divanista – mai domo – obietta: siamo in Italia, le norme non si rispettano, molti prendono il reddito e poi lavorano in nero. E che cosa dovremmo fare, abbandonare i poveri perché lo stato non funziona? Tornare a essere l’unico paese europeo senza un reddito di ultima istanza sottoposto alla prova dei mezzi, una misura che l’Unione europea ci chiedeva da decenni prima che arrivasse il reddito d’inclusione? Se il problema è questo, invece di abolire il reddito di cittadinanza, si proponga di assumere un esercito di assistenti sociali selezionati bene e pagati meglio. Un assistente sociale che ti prende in carico lo capisce subito se vivi sotto un ponte o giri in Ferrari percependo un sussidio, segnalandolo all’Inps nel secondo caso.
Dopodiché, c’è la parte più preoccupante del divanismo. Se davvero, come sostiene Bonomi, il competitor delle imprese italiane è il reddito di cittadinanza e non i salari che si pagano nei grandi paesi europei, abbiamo problemi seri. Per la serie: dimmi il tuo competitor e ti dirò chi sei. Davvero qualcuno pensa di fare impresa in Italia pagando un dipendente 520 euro al mese? Se ora che stiamo per investire quasi 300 miliardi in cinque anni non facciamo il salto di qualità verso una competizione basata su creazione di valore, produttività e formazione – piuttosto che su tagli al costo del lavoro, sgravi fiscali e moderazione salariale – non lo faremo più.
C’è poi una versione più sottile del divanismo, quella “culturale”. Gli italiani si sono impigriti e non hanno voglia di lavorare, soprattutto i giovani. Secondo Montezemolo, nessuno accetta lavori da 1.800 euro netti al mese se c’è da lavorare il weekend o svegliarsi presto la mattina. Premesso che se andiamo avanti ad aneddoti non mancano quelli di imprese che offrono salari da fame e condizioni precarie, provo a tagliare la testa al toro avanzando una semplice proposta. Creiamo una piattaforma digitale – che non si sostituisce a quelle private esistenti ma semplicemente le integra – in cui tutte le imprese possano pubblicare le loro offerte di lavoro a patto che abbiano quattro requisiti: 1) retribuzione netta mensile superiore a 1.360 euro; 2) orario a tempo pieno; 3) contratto a tempo indeterminato; 4) adozione di un contratto collettivo nazionale firmato da organizzazioni rappresentate al Cnel. Se dopo tre mesi nessuno si è fatto vivo per accettare l’offerta, l’impresa ha diritto a uno sgravio contributivo totale di tre anni e a un voucher di formazione per fare upskilling o reskilling di potenziali lavoratori. Che ne dite?
Seconda tesi (produttivista): “Per far crescere i salari dobbiamo far crescere la produttività”. Risposta: me cojoni. Ovvero, grazie che me l’hai detto. Ma di questo parliamo nel prossimo articolo.