Scenari
Un mondo senza auto è possibile, senza innovazione no
Le vetture inquinano, ok, ma proporzionalmente, dati alla mano, per l’ambiente sono più dannose le caldaie. La transizione però è inevitabile. Il punto è come trasformarla in un’opportunità. Qualche storia italiana
Se si parla di transizione ecologica e di passaggio dal sistema energetico attuale ad uno meno impattante sul fronte ambientale, con lo shock psicologico e industriale che questo comporta nella collettività e nel mondo politico e industriale, uno dei cavalli di battaglia del ministro Roberto Cingolani per spiegare con un esempio la portata del cambiamento è quello dei cavalli a New York. A fine ‘800 - ha raccontato – il problema di New York era lo sterco dei cavalli. Il traffico di carrozze era imponente, e particolarmente acuta l’emergenza ambientale creata dalle deiezioni (gli equini ne lasciavano tonnellate sulle strade). Si mise in piedi una conferenza urbanistica per studiare come risolvere il problema, e il verdetto fu sconfortante: non ci sono soluzioni. Poi, pochi anni dopo, Henry Ford produsse la prima Ford T con motore termico. Fu un successo. I cavalli tornarono nelle stalle o in campagna, le strade si ripulirono. La metafora del ministro serve anche oggi per raccontare le fibrillazioni che pervadono l’Europa e la spaccano sul fonte delle auto, dopo che il parlamento di Strasburgo ha votato per mettere al bando la produzione di auto a combustione diesel o benzina dal 2035. Una rivoluzione, da compiere in 13 anni. Per qualcuno sono troppo pochi, si preconizza il collasso soprattutto per il settore della componentistica. Per altri sono invece troppi, l’emergenza ambientale richiede interventi drastici per ridurre la quantità di C02 nell’atmosfera. E il dibattito rischia di diventare più ideologico che fattuale.
Il primo fatto da prendere in considerazione è questo: quanto inquinano i trasporti? I dati Eurostat del 2019, anno di riferimento perché precedente all’esplosione della pandemia Covid, dicono che il settore è responsabile del 25,8% delle emissioni, compreso il segmento aereo. Tutto il resto deriva da industrie, riscaldamento domestico, agricoltura, trattamento rifiuti, impianti di produzione elettrica. Le auto inquinano insomma, ma proporzionalmente sono più dannose le caldaie.
Sostituire il motore termico con uno elettrico comunque farà bene all’ambiente, ed il processo a cui sono comunque lanciati i produttori non sembra arrestabile. Ma a che prezzo? Le auto elettriche usano batterie, che debbono essere ricaricate in rete o con impianti domestici. E nasce allora il problema di come fornire loro la forza necessaria. Lo scorso mese di marzo Terna rilevava che l’energia pulita prodotta dalle rinnovabili copriva il 38,02% dei consumi, 83,3 gigawattora sui 324 richiesti dal paese. Il resto era trasmissione o generazione (284 gigawattora). Se non si aumenta la quantità di energia prodotta in modo pulito, quindi, usando ogni tipo di mezzo compresa l’eventuale energia nucleare da fusione, si rischia di arrivare al 2035 con nuovi mezzi elettrici che saranno comunque largamente dipendenti dai carburanti fossili, specialmente il gas: benzina e gasolio non riempiranno il serbatoio delle vetture, ma i derivati dal petrolio alimenteranno le centrali che dovranno rifornire la rete di ricarica. Il beneficio rischia di essere inferiore a quello che ci si aspetta, anche perché una vettura a propulsione elettrica, con la tecnologia di alimentazione oggi disponibile, diventa completamente neutra sul fonte delle emissioni, considerando anche la sua produzione, superata la soglia degli 80mila chilometri percorsi. Che non sono pochi. il tutto senza considerare il prezzo delle vetture. Il listino che compare sulle riviste specializzate ci dice che una Fiat Panda ibrida a benzina, modello base, si ottiene con 14.750 euro. Per la nuova raffinata e trendy 500 elettrica, sempre il modello più economico, ce ne vogliono 27mila, quasi il doppio. E’ un problema di reddito. E non è un caso allora se la percentuale più alta di vetture elettriche o ibride si registri in Norvegia, con oltre il 15 per cento, dove il reddito procapite è di oltre 70 mila euro annui. E la percentuale più alta di vetture a benzina (oltre il 90%) ci sia in Grecia, dove il reddito procapite raggiunge i 20mila euro annui. Rinnovare il parco auto, anche se a tappe, non sarà una cosa di poco conto e di poco costo per le famiglie. Già non ci si riesce adesso: l’età media del parco circolante in Italia è di 11,4 anni; in Grecia è di 16 anni, nel ricco Lussemburgo di 6,5 anni.
Se sparisce il motore termico arrivano le batterie. Che sono fatte prevalentemente di Litio, Nichel, Cobalto. A Pechino è attribuita una quota del 45 per cento nella produzione di batterie, più avanti di altre tigri asiatiche, che continuano a guadagnare terreno. Per fare un esempio, nel mercato delle e-bike c’è un solo grande produttore europeo, la Bosch, che contro ha Yamaha, Shimano, Panasonic e Bafang: quasi 4 bici elettriche su 5 sono spinte con motori orientali. L’occidente se ne è accorto e cerca di recuperare il tempo perduto. Sia per ragioni industriali sia per motivi strategici. Da un lato il processo di reshoring delle attività un tempo collocate fuori dai confini nazionali prende sempre più vigore, alimentato anche dall’esperienza di una pandemia che ha dimostrato quanto si fragile la logistica con canali troppo lunghi. Dall’altro la crisi Ucraina ha attivato i sensori nazionali sull’eccessiva dipendenza energetica da paesi lontani dai canoni della democrazia. Non dobbiamo passare dalla dipendenza del gas di Putin alla dipendenza dal litio di Xi Jinping. Parte allora la riscossa che ha il nome di gigafactory, almeno per produrre in casa le batterie. Volkswagen ne ha progettati 6 in Europa, Stellantis ne farà tre, di cui uno è annunciato a Termoli. Elon Musk negli Usa fa le cose ancora più in grande e oltre a sbarcare in Germania si allarga in Texas con uno stabilimento che è lungo 1,2 chilometri. Litio, Nichel e Cobalto dunque. Ce ne sono abbastanza?In realtà scarseggiano, ma soprattutto sono nelle mani di pochi paesi. La Cina nel corso degli anni ha fatto shopping di terre rare, sopratutto in Africa, e detiene una posizione di forza nell’estrazione mineraria. Pechino ha avuto la vista lunga. E’ partita allora la corsa a strappare contratti di lunga durata con i paesi non soggetti alla pressione cinese, come Australia, Argentina, Cile, Brasile, Canada. Ma si fa sempre più strada l’idea di riciclare le batterie a fine vita. Francesco Starace, ad di Enel Group, lo ha detto spesso: quando si finisce di usare una batteria, il litio è ancora lì, non si brucia come la benzina. Si può recuperare e riciclare. In Norvegia hanno cominciato a farlo. Il target dell’impianto di Fredrickstadt è oggi di 25mila accumulatori l’anno, il fabbisogno del mercato interno; ma si punta ad arrivare a rigenerarne 500mila nel 2030, diventando il primo polo europeo del settore.
Il riciclo delle batterie esauste è uno degli esempi di come la rivoluzione elettrica annunciata può creare nuove opportunità di occupazione, e gettare un po’ di acqua sul fuoco delle polemiche per la sparizione dell’indotto automobilistico tradizionale. L’allarme lanciato dai costruttori non è campato in aria: la componentistica rischia una rivoluzione, per il semplice motivo che un motore elettrico è estremamente meno complicato di un motore termico. Ma non la sua sparizione, se saprà rinnovarsi in tempo. Molte parti che compongono un’auto rimangono inalterate. Le sospensioni ci saranno sempre anche se andranno modificate per il maggior peso delle vetture; e lo stesso accadrà per i freni. Resisteranno i gruppi ottici, il volante, i pedali, le maniglie, le molle del bagagliaio. Gli specchietti retrovisori magari saranno sostituiti da telecamere. Tutto l’infotainment continuerà ad esistere, già adesso è presente in un crescente numero di vetture, anche economiche come anche tutto il settore che progetta e fornisce le tecnologie per la sicurezza in viaggio (rilevatori di pedoni e di ostacoli, mantenimento della corsia, parcheggio assistito). Certo, diremo addio ai pistoni ed al radiatore. Ma ci siamo già dimenticati, senza rimpianti, dello spinterogeno. Mediamente, spiegano i tecnici, un’auto elettrica ha un 15 per cento di componenti in meno rispetto ad un’auto a propulsione termica, ed il numero di parti scende da 4500-5000 fino a 3500, a seconda dei modelli. I nuovi modelli produttivi poi possono generare opportunità crescenti in settori paralleli. Prendiamo ancora ad esempio Elon Musk e le sue Tesla. L’ossessione del magnate-inventore per l’innovazione lo porta a comprimere il numero di pezzi e ottimizzare i processi all’estremo. In un modello Tesla ben 80 componenti sono state stipate in un solo modulo. E anche il telaio può essere fatto con un solo colpo. Per fare questo serve una macchina. L’ha prodotta la bresciana Idra, con una Giga Press che Musk ha voluto nella Giga Factory di Berlino. La gigantesca pressa lavora alluminio e lo rilascia pressofuso, permettendo di ridurre del 40 per cento costi del telaio e abbassando peso del 10 per cento. Di conseguenza anche il prezzo sul mercato delle auto finite potrà essere più abbordabile. Idra è l’unica azienda al mondo che produce macchinari di questo tipo. Il progetto era stato proposto a diverse case, ma era stato rifiutato: a Musk invece era piaciuto e portato a casa. Adesso Idra ha ricevuto ordinazioni per 22 Giga Press in tutto il mondo, e i dipendenti sono saliti a 180 unità.
Il problema, come sempre, è quello di cogliere al volo le opportunità per cambiare rotta. L’Italia tante ne ha avute, molte ne ha perse, come la leadership un tempo incontrastata degli elettrodomestici bianchi. Tutto il mondo della mobilità si affaccia ad una nuova era, che va cavalcata. A proposito di cavalli, i vetturini di new York di fine ‘800 non si sono rinchiusi con gli equini nelle stalle quando l’epoca delle carrozze è finita. Hanno imparato a guidare e magari sono diventati tassisti.
tra debito e crescita