Vaffa al gas russo. Un asse trasversale in Italia contro i ricatti di Putin
Chiudere i rubinetti della Russia prima che sia la Russia a farlo. Impossibile? Le parole di Letta e Meloni sull’embargo. Con chicche sul piano B del governo
La scelta di Vladimir Putin di chiudere gradualmente i rubinetti che portano il gas dalla Russia all’Europa – ieri Gazprom, che ha già tagliato le forniture alla Germania, all’Austria, alla Polonia, alla Bulgaria, alla Finlandia, ha comunicato all’Eni che nella giornata di venerdì 17 giugno avrebbe fornito la metà del gas precedentemente preventivato – costringe i leader dei governi europei a chiedersi quale strada imboccare tra le due presenti oggi di fronte al percorso del sostegno all’Ucraina. La prima strada coincide con la scelta di rimanere ostaggio delle scelte di Putin, seguendo la politica prudente della riduzione progressiva della dipendenza dall’energia russa. La seconda strada, più ambiziosa, coincide con una decisione più drastica, che suggerirebbe ai leader politici nazionali di abbandonare la strategia della progressività per afferrare quella della radicalità. Una forma di radicalità è quella che verrà discussa al Consiglio europeo del 23 e del 24 giugno, quando i leader dell’Unione europea si confronteranno non solo sullo status di candidato dell’Ucraina ma anche sul futuro della politica del price cap (obiettivo: portare il costo del gas da 100 euro per ogni megawattora a 80 euro).
Ma una forma di radicalità ancora più forte, e politicamente più dirompente, è quella che vedrebbe i leader dei grandi paesi europei compiere una scelta già presa dai paesi baltici: chiudere i rubinetti del gas russo prima che sia la Russia a farlo per noi. E’ una scelta difficile. Ma è una scelta che in Italia incontra meno veti politici rispetto a quelli registrati in paesi come la Germania (la Francia, come è noto, non ha questi problemi, avendo come principale fonte di approvvigionamento la terribile energia nucleare). E rispetto alla decisione russa di socchiudere i rubinetti che arrivano fino all’Italia (nei primi cinque mesi del 2022, la quota delle importazioni di gas dalla Russia sul totale è scesa in media sotto il 24 per cento rispetto a circa il 40 per cento nello stesso periodo del 2021, superata anche dalla quota del gas algerino, al 31 per cento) si può individuare nel nostro paese un asse trasversale non ostile alla scelta di non farsi più ricattare energeticamente dalla Russia. Ed è quello che pensa ancora il segretario del Pd, Enrico Letta, che interpellato dal Foglio conferma la sua idea, già espressa in altre circostanze.
“Andare nella direzione di un embargo del gas russo non può essere un tabù e chiudere i rubinetti del gas russo permetterebbe al nostro paese di togliere risorse alla Russia, di fare i conti con la realtà, di accelerare la transizione, di non farci trovare impreparati nel caso in cui i russi dovessero trascinarci per loro volontà in un disastro economico”. E’ quello che pensa Letta. Ed è quello che pensa buona parte del governo Draghi, all’interno del quale in varie occasioni diversi ministri hanno mostrato la propria disponibilità a lavorare a un embargo totale del gas russo (al Foglio lo hanno detto Lorenzo Guerini, Dario Franceschini, Mara Carfagna, Stefano Patuanelli, Andrea Orlando, e ieri lo ha confermato al Foglio anche il ministro Luigi Di Maio). Ed è quello che, in modo per qualcuno sorprendente, sostiene anche l’unico partito d'opposizione, Fratelli d’Italia, il cui leader, Giorgia Meloni, ha sintetizzato così con il Foglio la sua posizione: “L’embargo del gas è in assoluto sul piano del conflitto l’arma più efficace di cui dispone la comunità internazionale per fermare il conflitto. Ma quando sei in guerra devi trovare armi che colpiscano i tuoi avversari più di quanto rischino di colpire te stesso.
Quindi il punto non è gas sì gas no, ma quali siano gli strumenti di compensazione per le nazioni colpite dall’eventuale no al gas. Se non si parte da questo è impossibile risolvere il dilemma”. Adolfo Urso, senatore di Fratelli d’Italia, presidente del Copasir, sul punto la pensa come il suo leader, aggiungendo un elemento in più: “L’embargo del gas è in assoluto sul piano del conflitto la cosa più efficace che noi possiamo fare. Efficace perché interrompe il finanziamento alla guerra, ovviamente occorre attrezzarsi accelerando lo stoccaggio, realizzando il price cap, e la diversificazione delle fonti. Negli Stati Uniti, dove sono stato in questi giorni, abbiamo fatto presente le nostre necessità, sia per quanto riguarda l’aumento della produzione di gas americano, fondamentale per compensare il prima possibile il gas russo, sia per ciò che riguarda le misure compensative necessarie per ripartire in modo equo il costo delle sanzioni”.
Già, ma se dovesse esserci un taglio improvviso, voluto dall’Italia o voluto dalla Russia, il piano B dell’Italia esiste o no? E il problema come si risolve? Sul lungo termine le strade sono molte e sono variegate e tra queste vi è anche la possibilità che una parte importante del gas importato venga sostituito anche dall’energia creata con le fonti rinnovabili (secondo Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura, l’autorizzazione di 60 gigawatt di nuovi impianti rinnovabili nei prossimi tre anni potrebbe far risparmiare 15 miliardi di metri cubi di gas ogni anno). Ma sul breve termine, invece, il problema come si risolve? Si risolve, è la posizione del Mite, il ministero della Transizione ecologica, mettendo in campo tutti gli strumenti necessari che vi sono per diversificare i consumi. Dalla Russia, lo abbiamo detto, oggi arrivano 28-30 miliardi di metri cubi all’anno. E nel caso in cui a luglio dovesse essere tagliato il gas russo, considerando da qui alla fine dell’anno l’obiettivo di riempire gli stoccaggi fino al 90 per cento, la compensazione potrebbe funzionare così.
Entro la fine dell’anno, l’Eni sarà in grado di coprire fino al 50 per cento dei flussi di gas russo eventualmente mancanti, per poi passare al 75 per cento nell’inverno successivo e per poi passare al 100 per cento nell’inverno ancora successivo. Nel dettaglio, 5-10 miliardi di metri cubi, da qui al marzo 2023 arriverebbero da maggiori importazioni dal Nordafrica. Cinque miliardi dalle importazioni di gas liquefatto, che avrebbe bisogno oltre che dell’hub di Livorno anche almeno di una nave da rigassificazione, che arriverà solo nel primo semestre 2023. Tre miliardi arriverebbero dal risparmio energetico. Tre-quattro miliardi arriverebbero dall’interruzione volontaria di alcuni consumi industriali per un periodo di tempo non superiore ai dieci giorni. E almeno cinque miliardi dall’attivazione delle centrali a carbone. La strada è chiara. Il piano c’è. La strategia pure. Il vaffa al gas russo non è un tabù, è trasversale e forse non sarebbe neppure una cattiva idea.