l'analisi
Perché politica, prezzi e procedure frenano la Ferrari Draghi
Le incertezze nella messa a terra del Pnrr, i sospetti sulla sostenibilità del debito e i crucci di un grand commis: si va come su una vecchia 500
Mario Draghi torna da Kyiv con negli occhi e nell’animo gli orrori della guerra e deve tuffarsi nel circo mediatico-politico italiano. A Palazzo Chigi sospirano preoccupati. Un grand commis del primo cerchio si rammarica: “Abbiamo a disposizione una Ferrari e la facciamo andare come una vecchia 500”. Fuor di metafora, il nostro interlocutore è convinto che bisognava cogliere di più e meglio l’occasione di un governo di emergenza a larghissima maggioranza guidato da una personalità preparata, autorevole che in questi mesi ha via via acquisito un certo carisma, freddo se vogliamo, ma nient’affatto distante, meno che mai scostante. Sfruttarlo come? Il cruccio fondamentale riguarda il Pnrr. “Certo per quest’anno riusciamo a centrare gli obiettivi che sono fondamentalmente le riforme, presupposto per la riuscita del piano – spiega – Ma dal 2023 si tratta di mettere a terra i progetti, quindi di aprire i cantieri. Chi sarà allora al governo? E che parlamento uscirà dalle urne?”.
Preoccupa la lentezza delle procedure, la giungla delle autorizzazioni che s’infittisce a mano a mano che dai ministeri si scende giù per li rami, allarma l’impennata dei costi che rischia di rimettere in discussione gli appalti, mentre l’inflazione non crea certo l’ambiente migliore. Quanto ai mercati è chiaro che non si fidano della Bce la cui guida sembra inadeguata. E così torniamo alla Ferrari. Un modo per utilizzare la sua potenza sarebbe stato applicare su vasta scala, la più ampia possibile, il modello Genova.
Da più parti si mette in dubbio l’affidabilità dell’Italia. Lo spread in salita non è solo il campanello d’allarme per il troppo debito e un disavanzo pubblico difficile da tenere sotto controllo. C’è molto di più. Chi ha parlato con diplomatici ed esponenti dei governi del nord Europa si è sentito ripetere il dubbio che l’Italia non sia in grado di realizzare gli ambiziosi piani di sviluppo. Dunque i 200 miliardi di euro forniti dalla Ue (e pro quota dai “frugali” contribuenti) finiranno in spesa assistenziale, non serviranno per modernizzare il paese. Proprio su questo si basa oggi il sospetto sulla sostenibilità del debito italiano, non tanto sulle formule algebriche. Prende corpo insomma lo spettro del 2011? Le differenze positive sono molte e le ha sottolineate al Financial Times Francesco Giavazzi, l’economista bocconiano consigliere di Draghi. Ignazio Visco governatore della Banca d’Italia ha ricordato ancora una volta due giorni fa che i fondamentali economici dell’Italia non giustificano uno spread di 200 e più punti con la Germania. Le banche oggi sono più solide, il capitale è aumentato ed è sufficiente ad affrontare una nuova crisi. Le loro azioni scendono in borsa perché hanno in bilancio titoli di stato. Tuttavia, “quel che davvero importa per gli investitori non è tanto il livello del debito rispetto al prodotto lordo (salito dal 127 al 150 per cento), ma il trend; anche un grande debito che si riduce è meno preoccupante di un piccolo debito che sale velocemente”.
La variabile fondamentale è la crescita. E’ vero che sta rallentando, ma per il momento non c’è recessione. Non solo. L’inflazione, negativa sotto molti altri aspetti, aiuterà a ridurre il debito sul pil. Secondo le previsioni del governo dovrebbe scendere al 147,5 per cento già quest’anno. E ancora, nel bicchiere mezzo pieno c’è che il Pnrr sosterrà la congiuntura, aumentando la domanda in media di un 2,5 per cento del pil in cinque anni, “Il Pnrr ci aiuta nel prossimo quinquennio a mantenere un tasso di sviluppo di almeno un punto percentuale anche nel peggiore dei casi”, spiega Giavazzi. E qui torniamo alla preoccupazione dominante. Se gli ostacoli burocratici si sommano a quelli produttivi (i costi, i colli di bottiglia dal lato dell’offerta, la mancanza di personale) e se la febbre elettorale continua a salire, che legge di Bilancio si potrà fare per il 2023? Al ministero dell’Economia ci stanno già lavorando e le cifre viaggiano dai computer di Palazzo Sella a quelli di Palazzo Chigi. Che errore non aver mandato la Ferrari a tutto gas.