C'è acqua e acqua. E la siccità va gestita, non drammatizzata
Se la natura è avara, se c’è meno capitale naturale, occorre più capitale fisico (infrastrutture, tecnologia, impianti) e più capitale sociale
Come sempre, ci è voluta una crisi idrica perché il tema dell’acqua balzasse all’attenzione dei media. Prima che l’emozione del momento ci porti a dire – e soprattutto a fare – qualche stupidaggine, non farà male ricordare alcune cose. Attenzione, in primo luogo, a non sbagliare le proporzioni facendoci prendere dal panico.
I dati che provengono dagli Osservatori mostrano che la situazione è critica, ma non drammatica. Non poi tanto peggiore di quelle del 2003 e del 2006. Siamo sopravvissuti allora, sopravvivremo anche stavolta. E anche stavolta, finita l’emergenza, torneremo a dimenticarci dell’acqua, fino alla prossima.
Attenzione, in secondo luogo, a non confondere l’acqua del rubinetto con l’acqua irrigua. Sempre acqua, ma sistemi di gestione diversi e non comunicanti, origine di problemi diversi, che vanno affrontati con logiche diverse. I risparmi dell’uno quasi mai liberano risorse disponibili per l’altro. Attenzione, ancora, a non scambiare un dato contingente con un dato strutturale. Non è che di colpo l’Italia si sta trasformando in un paese subsahariano. Grazie alle sue montagne e alla permeabilità del suo suolo l’Italia è, e resta, un paese ricco di acqua. Non solo perché ne ha tanta, ma soprattutto perché ce l’ha facilmente accessibile, dove serve e quando serve, anche localmente. Non solo al Nord, ma anche al Sud. Con le dovute eccezioni, è chiaro: come la Puglia, le Isole, la Romagna.
Così ci siamo abituati a usarne con larghezza. Non da oggi. L’irrigazione, che sfrutta sapientemente il deflusso imbrigliandolo e incanalandolo in migliaia di km di canali, si è sviluppata a partire dall’Alto Medioevo. L’agroalimentare, eccellenza italiana, è sempre più dipendente dall’acqua: l’irrigazione permette di adattarsi ai capricci del clima, regolarizzando i cicli stagionali e permettendo di investire in coltivazioni molto più redditizie, ma anche più rischiose. Il nostro sistema acquedottistico, da sempre, è costituito da una miriade di reti che si estendono su ambiti geografici molto ristretti, potendo contare su pozzi e sorgenti un po’ dovunque.
Più si abbonda di qualcosa, più si è vulnerabili quando ce n’è meno del solito. Così, bastano un anno con poca neve, una primavera poco piovosa, un anticiclone africano un po’ più tenace per metterci in crisi. Se la natura è avara, bisogna aguzzare l’ingegno: se c’è meno capitale naturale, occorre più capitale fisico (infrastrutture, tecnologia, impianti) e più capitale sociale (organizzazione, condivisione, regole, comportamenti collettivi, istituzioni legittimate a governare, ossia a prendere decisioni su cosa tenere e cosa sacrificare). Due cose che costano: non solo più soldi ma anche meno libertà di fare ciascuno a suo modo, meno potere alle comunità locali, costrette a delegare la gestione a sistemi esperti. E richiedono tempo.
Come tutti i capricci della natura, anche la siccità fa tanti più danni quanto più ci coglie impreparati. Ma non è poi vero che lo siamo, anche se per riflesso condizionato ricorriamo al frasario dell’emergenza. Da almeno due decenni, il nostro Paese ha attivato meccanismi di governo innovativi, come le Autorità di distretto idrografico, che monitorano il bilancio idrico anticipando le crisi, o le “cabine di regia” istituite per concertare con i vari utilizzatori le misure da adottare, e che hanno consentito di gestire efficacemente sia l’emergenza del 2003, sia quella – anche peggiore – del 2006.
E da almeno un decennio, grazie anche a una regolazione economica finalmente adeguata – il sistema di gestione del servizio idrico ha ricominciato a investire e a modernizzarsi, con risultati certo ancora parziali, ma già apprezzabili e significativi. Certo, per gestire una temporanea scarsità bisogna sacrificare qualcosa. Come avviene dovunque ci sia poca acqua e se ne voglia usare tanta: dalla California all’Australia, dalla Spagna a Israele. Buona norma sarebbe trovare il modo di sacrificare gli usi di minor “valore sociale”, eventualmente compensandoli, invece di lasciare che la calamità colpisca a caso.
Il problema principale dell’Italia è invece che, abituati alla larghezza, abbiamo avvertito meno di altri il bisogno di investire in “resilienza”, ossia nella capacità di rispondere agli shock. Così ci riesce difficile spostare acqua da dove c’è a dove manca e concentrare l’offerta sugli usi di maggior valore sociale (ad esempio: le coltivazioni ortive in serra, le filiere IGP, sacrificando qualche po’ di cereali). Intendiamoci: questo non è privo di senso. Se un giorno ai tropici fa più freddo del solito, chi ha solo camicie hawaiane non saprà come coprirsi. D’altra parte, riempirsi di colbacchi e spazzaneve che non si useranno (quasi) mai è anche quello uno spreco. La prevenzione ottimale è, in altre parole, figlia della statistica. Se la frequenza degli anni critici è destinata ad aumentare, occorre cambiare modello agrario, adattandolo ad un clima più secco.
Dire che “serve più capitale fisico e sociale” vuol dire più investimenti, più capacità gestionale e organizzativa. Vuol dire, quindi, più industria, e anche più finanza.
Attenzione quindi, prima di dichiarare guerre sante ai nemici sbagliati. Qualcuno coglierà l’occasione delle restrizioni che inevitabilmente, qua e là, si dovranno imporre agli utenti del servizio pubblico, a cominciare da quelli domestici. Le collegherà agli aumenti delle tariffe, che ci sono stati, certo, e assai salati. E lancerà anatemi contro la privatizzazione del bene comune e chi ha tradito il voto referendario.
Ma sbaglierebbe completamente bersaglio. Nessun avido mercante sta facendo incetta dell’oro blu per speculare sulla sete. Nessuna multinazionale dell’agribusiness sta rubando l’acqua ai contadini per gettarli sul lastrico. In Italia, la siccità fa danni proprio perché il sistema di gestione è ancora troppo locale, troppo poco industriale, troppo poco capitalizzato. E quindi più vulnerabile.
Attenzione anche prima di mettere mano alle “grandi opere”. L’acqua è un diritto, ma anche un bene economico il cui valore – nel caso dell’agricoltura, ad esempio – dipende dal valore che l’irrigazione consente, e che per molte colture “a pieno campo” è di almeno un ordine di grandezza inferiore rispetto a quanto costerebbe procurare quell’acqua in più.
Il che non suoni come un veto contro le dighe – spesso servono, come insegna l’esempio dell’invaso del Bilancino, senza il quale Firenze patirebbe la sete tutti gli anni, e l’Arno tornerebbe ad essere quel torrentaccio che Madre Natura aveva voluto che fosse. Suoni piuttosto come un monito ad abbandonare una “politica dell’offerta” figlia di un “fabbisogno” dato a prescindere e misurato in funzione di quanti, potendo disporre di acqua gratis, ne vorrebbero avere ad libitum. Suoni come un invito a ragionare su come rendere possibile un razionamento intelligente della domanda, in luogo dell’espansione dell’offerta. Suoni, ancora, come uno stimolo ad utilizzare in modo più efficiente l’acqua che abbiamo – a cominciare dall’interconnessione dei sistemi idrici, alla distrettualizzazione delle reti, al sistematico riuso delle acque depurate. Se proprio di offerta vogliamo parlare, si pensi, anche, alla ricarica artificiale delle falde e ai dissalatori, più adatti, questi ultimi, a fronteggiare crisi temporanee. E si pensi, infine, che anche nel caso dell’acqua, un contributo alla gestione efficiente può venire, come per ogni altra risorsa scarsa, dall’uso dei prezzi.
Parlare di prezzi farà subito scattare sull’attenti le legioni dei devoti alla causa del “bene comune”. Ma un conto è “dare da bere agli assetati”, un altro conto è riempire il Paese di opere costosissime e impattanti per poter regalare l’acqua a chiunque la chieda, con somma gioia soprattutto dei costruttori. La siccità non sia un pretesto per tornare a quei tempi in cui l’acqua, come diceva un vecchio adagio, “dava più da mangiare che da bere”.