Chi ha paura del capitalismo verde
I populisti di destra e di sinistra si scatenano contro l’impegno ambientalista dei “nuovi Soros”: Mark Carney, ex governatore della Banca d'Inghilterra, Jamie Dimon, ad di JP Morgan, e soprattutto Larry Fink di BlackRock. Ma senza di loro, la decarbonizzazione non ha speranza
Nota per i populisti di destra e di sinistra: aggiornate la lista del vostro sdegno. Se in cima all’elenco dei nemici da indicare alle masse figurano ancora George Soros, Bill Gates e le solite anonime “lobby di banchieri e burocrati”, siete stati superati dagli eventi. E’ tempo per voi di prendervela con i nuovi “cattivi”, per esempio con il terzetto che l’Economist ha appena ribattezzato il “Comitato per salvare il pianeta”: Mark Carney, Jamie Dimon e soprattutto Larry Fink.
Si tratta della riedizione in chiave anni Venti del Ventunesimo secolo di un altro analogo e fittizio comitato, quello “per salvare il mondo”, che Time mise in copertina nel 1999. I protagonisti dell’epoca erano tre pezzi grossi dell’economia dei tardi anni dell’amministrazione Clinton: Alan Greenspan, Robert Rubin e Lawrence Summers. La triade del secolo scorso però puntava solo a creare scompiglio sui mercati, senza alterare le regole del gioco. Quella attuale vuole cambiare alla radice lo scopo stesso del fare business, superando la logica del profitto ed entrando su un terreno più impalpabile, quello del futuro dell’umanità e del pianeta che la ospita.
Carney è l’ex governatore della Banca d’Inghilterra. Dimon è l’amministratore delegato di JPMorgan Chese, la più grande banca americana. E Fink è il ceo di BlackRock, il più grande fondo d’investimento al mondo. Li unisce il fatto di aver messo da anni al centro delle loro analisi ed esternazioni il richiamo a imprese e finanza perché dedichino ogni sforzo alla lotta al cambiamento climatico: occorre ripensare a fondo il capitalismo, è il loro messaggio, per fare della sostenibilità il cuore delle strategie di business per i prossimi decenni.
Ripensare il capitalismo, fare della sostenibilità il cuore del business. Un approccio che si traduce in una parola, “purpose”, lo scopo del fare impresa
E’ un approccio che si traduce in una parola, purpose, lo scopo del fare impresa. E che ha reso centrali, nelle discussioni interne ai consigli d’amministrazione, i cosiddetti temi Esg (Environmental, Social e Corporate Governance). Dopo alcuni anni in cui questa modalità di misurare gli obiettivi sociali di un’impresa ha raccolto consensi e creato una serie di nuovi rating per definire il successo di un business, adesso è esplosa una dura reazione contro il purpose e i suoi paladini. E la parola che viene usata per bocciare questa linea è woke, un termine nato con connotazioni positive nell’ambito della sinistra progressista americana e ora utilizzato invece in chiave dispregiativa dalla destra repubblicana. Il woke capitalism, in questa accezione, è l’attivismo pericoloso che personaggi come Carney, Fink, Dimon e molti altri leader di fondi d’investimento stanno esercitando per spingere le aziende a prendere posizione su temi valoriali e su sfide ambientali.
Mescolando in un grande minestrone le tematiche Esg con approcci percepiti come figli del politically correct o della cancel culture, la destra statunitense vicina a Trump ha lanciato una controffensiva che mira ad affibbiare l’etichetta woke a qualunque evangelizzazione della sostenibilità che si discosti dal vangelo secondo Milton Friedman: “La responsabilità sociale delle imprese è quella di incrementare i loro profitti”. Nient’altro. I ceo devono arricchire gli azionisti, non è compito loro salvare il pianeta, combattere le disuguaglianze economiche o farsi paladini dei diritti civili.
La controffensiva è partita dagli stati americani dove i posti chiave del governo locale sono controllati dai repubblicani. In West Virginia, il tesoriere dello stato, Riley Moore, ha deciso di ritirare gli investimenti che aveva affidato a BlackRock, ritenendoli in contrasto con gli interessi locali ancora fortemente legati all’industria del carbone. Il suo collega del Texas ha ottenuto dal parlamento locale una legge che vieta di affidare i ricchi capitali dei fondi pensione a società che mettono in discussione il futuro delle fonti fossili. In Texas non è andata giù l’iniziativa di BlackRock di unirsi ad altri due grandi fondi, Vanguard e State Street, per permettere al fondo attivista Engine N.1 di conquistare tre posti nel consiglio d’amministrazione della Exxon, il colosso mondiale dell’oil&gas, per cercare di condizionarne le strategie. Una quindicina di altri parlamenti locali hanno allo studio iniziative analoghe a quella texana.
La rivolta riguarda anche le agenzie di rating che hanno cominciato a inserire i rischi di impatto ambientale tra i principali criteri che determinano se un’azienda o un’istituzione sia affidabile dal punto di vista del credito. In Utah e in Idaho è scattato il boicottaggio nei confronti del rating Esg, per fare pressioni contro le agenzie che chiedono garanzie legate ai progetti di neutralità carbonica e sostenibilità.
Moore e i suoi colleghi hanno ottenuto largo spazio sulle pagine delle opinioni del Wall Street Journal – di forte simpatia conservatrice – per la loro battaglia contro quello che anche l’autorevole quotidiano newyorchese ha finito per ribattezzare woke capitalism. Ma hanno fatto anche un passo in più che potrebbe avere conseguenze importanti. Hanno convinto i repubblicani al Senato a presentare un disegno di legge intitolato “Investor Democracy Is Expected Act” (sintetizzato in Index Act) che vorrebbe limitare la libertà di manovra dei gestori dei grandi fondi d’investimento, vincolandola a un voto dei loro clienti ogni volta che ci sia da decidere come muoversi nei vari Cda. Un po’ come dire che realtà come BlackRock, che gestisce quasi 10 trilioni di dollari a livello globale, dovrebbero attivare delle “piattaforme Rousseau” in stile M5s ogni volta che devono decidere come spostare i soldi. L’Index Act adesso è al vaglio di un Congresso che a novembre, con le elezioni di Midterm, potrebbe tornare sotto il controllo dei repubblicani.
Visto che come sempre i populisti di colori diversi trovano il modo di agire di concerto, le accuse a BlackRock e compagni arrivano anche dalla sinistra più progressista, secondo la quale non fanno abbastanza per l’ambiente e continuano ad avere ancora troppi investimenti collegati alle fonti fossili.
I populisti di colori diversi agiscono di concerto: le accuse a BlackRock e compagni arrivano dai Repubblicani e dalla sinistra più progressista
Carney, Dimon, Fink e altri protagonisti del settore si trovano così sotto attacco da due lati. La guerra in Ucraina e il conseguente ritorno al centro dell’attenzione della questione dell’approvvigionamento energetico non li ha certo aiutati, perché la corsa alla decarbonizzazione da mesi ha rallentato e ha perso focus, rispetto all’esigenza di trovare fonti di gas e petrolio alternative a quelle russe.
E’ il momento più difficile per quelli che sono stati protagonisti, sul fronte dell’economia e della finanza, dal fatidico 2015 che ha segnato il decollo dei temi della sostenibilità. Quell’anno, una tempesta perfetta legata a tre eventi aveva innescato un cambio di passo avvertito da tutti i governi e anche dal top management delle grandi aziende. Il primo evento era stata l’adozione all’Onu, da parte di 193 paesi, dell’Agenda 2030 con i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), che obbligavano tutti a fare i conti con le sfide del pianeta. Il secondo era stata la COP21 di Parigi, che ha imposto tempi e vincoli precisi. Il terzo evento, forse sottovalutato ma in realtà assai importante, è stata la pubblicazione dell’enciclica “Laudato Si’” di Papa Francesco, che ha avuto in questi anni ampia diffusione negli ambienti economici e finanziari e ha contribuito a sollevare interrogativi etici un tempo assenti dal dibattito dei consigli d’amministrazione.
L’impeto al cambiamento impresso dai tre eventi del 2015 ha messo in moto molti protagonisti dei mercati, che si sono trovati a fare i conti nel corso degli anni successivi da una parte con le richieste di “fare di più” avanzate dai ragazzi di Greta Thunberg, e dall’altra con le intimazioni a “fare di meno” da parte dell’amministrazione Trump, che per non lasciare dubbi si è ritirata subito dagli accordi di Parigi.
In questo scenario, sono emerse le voci oggi più influenti nella riflessione su come fare impresa e gestire l’economia nell’èra della sostenibilità ambientale. Carney, fin dal periodo in cui era alla guida della banca centrale londinese, è diventato una cassandra per i policy makers di ogni parte del mondo, un po’ come era stato Summers in un’altra stagione. Fin dal 2015 è stato tra i primi e più autorevoli ad ammonire banche e compagnie d’assicurazione per i rischi legati al cambiamento climatico e a spronare i governi a fare di più e più in fretta.
Dimon, da parte sua, ha guidato l’irruzione delle tematiche Esg all’interno del mondo corporate, anche per il suo ruolo di presidente della “Business Roundtable”, una realtà con un forte peso nel mondo degli amministratori delegati globali.
Ma la vera star del terzetto, il candidato migliore a succedere a Soros e Gates come nemico da indicare alle masse da parte dei populisti, è Larry Fink. Californiano trapiantato a New York (e già solo questo lo rende sospetto agli occhi del mondo di Trump), Fink, 69 anni, è oggi uno degli uomini più potenti di Wall Street. Non è solo l’enormità dei fondi che amministra a renderlo importante, ma la rete di relazioni che ha costruito nel corso dei decenni e che coltiva dall’appartamento a Manhattan dove vive con la moglie Lori (quasi 50 anni di matrimonio e tre figli).
L’enciclica “Laudato Si’” di Papa Francesco ha avuto ampia diffusione negli ambienti economici e finanziari e ha sollevato interrogativi etici
Fink è un self made man che ha cominciato lavorando in banca per poi lanciare, nel 1988, il proprio fondo d’investimento che nel tempo è diventato il più importante del mondo. Sostenitore dichiarato del partito democratico, ha fatto fortuna soprattutto negli anni dell’amministrazione di Barack Obama, quelli in cui c’era da ricostruire l’economia americana devastata dalla crisi dei mutui subprime e dal crollo di Lehman Brothers e altri colossi. I suoi legami con l’establishment democratico, secondo le malelingue, gli hanno portato grandi vantaggi e se Hillary Clinton avesse vinto le elezioni del 2016 non era escluso che si sarebbe ritrovato a guidare il Tesoro.
Trump, che da ex palazzinaro newyorchese lo conosce da una vita, lo ha coinvolto in un gruppo di consulenti del governo nonostante la diffidenza che provava per lui, ma i rapporti sono sempre stati freddi. E sono andati via via congelandosi quando Fink ha cominciato ad assumere il ruolo di paladino della sostenibilità.
Il ceo di BlackRock non è un personaggio pubblico conosciuto come Soros o Gates e non è una presenza costante e a forte impatto mediatico nelle varie Davos. Ma negli ultimi anni ha sviluppato un suo singolare e potente strumento di comunicazione: la lettera annuale agli amministratori delegati di tutto il mondo.
La “Larry Fink’s Annual Letter to CEOs” è diventata una sorta di “Discorso sullo Stato dell’Unione” in chiave Wall Street e di anno in anno si è fatta sempre più incalzante soprattutto sui temi della sostenibilità. Dal 2018 in particolare, Fink ha cominciato a dedicare grande spazio nella lettera al purpose e non ha più smesso di farlo. Il mondo degli affari lo ha notato e ha capito che non poteva più rimandare le discussioni interne su questo tema: quando uno che muove 10 trilioni di dollari e controlla grossi pacchetti azionari di un po’ tutte le società ti dice che devi occuparti di un tema, è bene dargli ascolto.
I richiami ai ceo sono diventati duri e diretti negli ultimi anni. “Il massiccio spostamento verso gli investimenti sostenibili – scrive Fink nella Lettera del 2022 – è ancora in fase di accelerazione. Che si tratti di capitale che viene convogliato in nuove imprese incentrate sull’innovazione energetica, o di capitale che si trasferisce dagli indici tradizionali verso portafogli e prodotti più personalizzati, assisteremo a una maggiore mobilità del denaro. Ogni impresa e ogni settore ne usciranno trasformati a causa dalla transizione verso un mondo a zero emissioni. La domanda ora è: voi sarete tra coloro che guideranno il cambiamento o tra chi sarà guidato?”.
La “Larry Fink’s Annual Letter to CEOs” di anno in anno si è fatta più incalzante sui temi della sostenibilità, ma ora Fink è sulla difensiva
Difendendosi dalle accuse che già dallo scorso anno gli piovevano addosso, Fink nella sua missiva ai ceo ha aggiunto: “Il capitalismo degli stakeholder non ha niente a che fare con la politica, non rientra in nessuna agenda sociale o ideologica. Non è un’istanza ‘woke’. E’ il capitalismo, che fa leva sulle relazioni reciprocamente vantaggiose tra voi e i vostri dipendenti, clienti, fornitori e le comunità su cui la vostra società fa affidamento per prosperare. E’ questo il potere del capitalismo”.
Il fuoco incrociato a cui Fink e compagni si sono trovati esposti negli ultimi mesi, dopo l’uscita della Lettera e l’esplosione della crisi ucraina, sembra però averli intimoriti. “Sono un capitalista purosangue e a favore del libero mercato, non sono ‘woke’!”, è esploso Dimon qualche giorno fa, di fronte alle ennesime contestazioni. “Non voglio essere il poliziotto dell’ambiente”, ha rincarato la dose Fink, di fronte ai boicottaggi texani.
Per il mondo Esg “è il momento della verità”, ha titolato il Financial Times, dopo che sono esplosi in Germania i primi casi di “greenwashing” da parte di società che fingevano di aver raggiunto alcuni obiettivi di sostenibilità solo per far contenti fondi d’investimento e agenzie di rating Esg. La guerra e la corsa alle fonti fossili in chiave anti-Russia rendono tutto più difficile per i paladini della sostenibilità.
L’etichetta “woke capitalism” adesso rischia di spazzare via tanti progressi fatti dal 2015 a oggi. Carney, Dimon e Fink possono restare o meno simpatici, ma senza l’impegno che da anni chiedono a banche, grande finanza e imprese, gli obiettivi della decarbonizzazione resteranno un miraggio.