Il perfezionista
Un punto di vista su Del Vecchio. Sperimentale, artigianale, creatore prima che padrone
Raccontava di non aver mai voluto lavorare per altri. Lo spirito imprenditoriale che lo ha animato è stato più quello del creatore di oggetti che quello del capo azienda. L’impressione è che si sia adeguato a fare anche il presidente, ma quasi come se si trattasse di un obbligo non divertente
Guardando la linearità dei progressi imprenditoriali di Leonardo Del Vecchio si ha quasi l’impressione che sia stato tutto facile, tutto determinato. L’espansione a ritmo regolare della sua presenza nel settore dell’occhialeria, i passi tutti consequenziali, gli obiettivi stabiliti e rispettati: un modo di procedere che è rimasto identico anche al mutare della scala di applicazione. Dalla crescita del terzista a quella del campione mondiale del settore non ci sono state modifiche al modo di operare e, soprattutto, al rapporto tra visione strategica e realizzazione pratica.
Davvero ci sarebbe da studiare, e un po’ è stato già fatto, il suo modo di intendere la gestione industriale. Certo, lo ha aiutato anche la scelta, elettiva si direbbe, di operare in un settore in cui la qualità è apprezzata necessariamente e concretamente, i consumatori sono accorti ed evoluti, i progressi possono realizzarsi con miglioramenti incrementali e non con salti tecnologici capaci di distruggere interamente ciò che la tecnologia aveva acquisito in precedenza. Mentre la quantità di capitale finanziario e umano necessaria per avviare l’impresa e, soprattutto, per poter avere avanzamenti qualitativi non era, almeno nei primi anni, spaventosamente alta. Insomma, si poteva partire anche senza spalle finanziarie larghissime. Il lavoro di ricerca nella gigantesca Luxottica di adesso, inglobata ormai anche Essilor, procede con un metodo che riproduce il mix di visione e sperimentalismo visto nei suoi esordi imprenditoriali quando passava le notti a sistemare e migliorare i macchinari per le sue parti di occhialeria. Appunto, si diceva, gli occhiali sono stati il prodotto perfetto per consentire a Del Vecchio di sviluppare al massimo le sue attitudini, il suo perfezionismo sperimentale, imparato facendo l’apprendista nei primi anni Cinquanta e poi nei corsi di incisione dell’Accademia di Brera, lui, mandato dal padre che non poteva mantenerlo al collegio dei Martinitt di Milano e da lì instradato, come gli altri ragazzi presenti, verso una specializzazione tipicamente nel lavoro meccanico, in officina, per arrivare dritti prima possibile verso un impiego.
Lui raccontava di non aver mai voluto lavorare per altri, probabilmente è anche vero, ma lo spirito imprenditoriale che lo ha animato è stato più quello del creatore di oggetti che quello del capo azienda. L’impressione è che si sia adeguato a fare anche il presidente, il padrone, il direttore, ma quasi come se si trattasse di un obbligo non divertente e non troppo interessante, certamente un compito che non lo esaltava e dal quale non veniva vellicata la sua vanità. Del Vecchio era un uomo di prodotto e di mercato. E, tornando alla scelta d’elezione dell’occhialeria, si potrebbe pensare a un parallelo tentatore quanto sciatto nel rapporto con i clienti che si avvicinavano ai suoi prodotti perché intendevano veder chiaro, veder bene, capire cosa stavano comprando. Gli occhiali si comprano con una frequenza diversa da gran parte degli altri nostri consumi, rientrano tra gli acquisti fatti con buona consapevolezza, di fronte a una necessità. Sono in una posizione d’onore e di grande delicatezza. Del Vecchio capì subito che aveva a che fare con un prodotto speciale. In cui, certo, i progressi tecnologici ci sono stati, ma restando applicati in uno schema stabile. La sua corsa imprenditoriale, in un mercato con domanda crescente ma facilmente prevedibile in anticipo, non poteva che avvenire anche e soprattutto attraverso acquisizioni. Sull’inserimento di marchi esterni nella sua galassia avrebbe potuto tenere intere sessioni di lezioni universitarie. Perché non ha praticamente mai sbagliato un’acquisizione, né distrutto valore contenuto in un marchio acquistato, né danneggiato le forze vive delle aziende inserite nel suo gruppo, riuscendo a confrontarsi con mercati diversi e con forze produttive diverse, da più paesi e da culture differenti.
La progressione degli inserimenti si fa impetuosa a partire dai primi anni Novanta, servono ad arricchire il controllo della filiera e a presidiare mercati in cui non si potrebbe entrare senza un piede locale dentro. Raccontava di come aveva capito che in ciascuna fase, dalla progettazione alla produzione fino alla distribuzione e alla commercializzazione ci fossero, prima della sua travolgente capacità di integrazione, presidi capaci di tenere sotto scacco gli altri pezzi della filiera, una specie di percorso a tappe, con un piccolo taglieggiamento, diciamo così, a ogni tappa. Integrando la filiera l’emersione di valore arrivava da sé ogni volta che saltava il potere d’interdizione tra una tappa e l’altra. Aggiungendo maggiore efficienza e miglioramenti tecnologici si capisce come le varie acquisizioni abbiano generato miglioramenti di margini e crescita di fatturato. Certo, queste sono cose che si leggono in qualsiasi manuale di gestione aziendale, solo che poi non succedono, e la storia delle fusioni e acquisizioni è costellata di episodi di distruzione di valore, di rapacità, di danneggiamenti dei benefici della concorrenza. Del Vecchio, invece, ha portato sempre a casa risultati dalle acquisizioni. D’altra parte, servono passi molto decisi per far crescere il proprio patrimonio da sostanzialmente zero a 25 miliardi, secondo le ultime ricostruzioni degli specialisti dell’accertamento partimoniale.
Del Vecchio è rimasto legato al suo prodotto d’elezione e allo specifico mercato che presidiava e che dominava per tutta la vita. Le digressioni in altri ambiti, dall’immobiliare alla sanità, sono sembrate quasi necessitate da eccessi di liquidità, come forme di diversificazione inevitabile, il che non ha impedito di schierare la partecipata immobiliare, Convivo, nelle migliori operazioni del settore. Per la sanità c’è da segnalare non solo la ricerca di nuovi investimenti remunerativi, ma anche l’impegno, interessato e non, per sostenere l’assistenza e la ricerca, in parte anche per reagire a un problema di salute personale che lo avvicinò alle questioni legate alla ricerca. E’ di poche settimane fa il salvataggio, con denaro di Del Vecchio, dell’ospedale romano San Giovanni Calibita, il Fatebenefratelli sull’Isola Tiberina, operazione per la quale ha lavorato assieme a strutture vaticane. Di finanza non si era mai occupato molto, anche la gestione finanziaria di Luxottica non poteva dirsi particolarmente innovativa o di interesse rilevante. L’acquisto progressivamente aumentato di quote di Generali e di Mediobanca sembrava solo un effetto di quella specie di fuoriuscita, di sversamento, del suo capitale finanziario, per poi trasformarsi in un modo per provare, una volta tanto, a ricoprire anche un ruolo di sistema per il suo paese.
Poco incline alle prese di posizione pubbliche di tipo politico e poco dedito al proclama sociale, Del Vecchio sembrava un estraneo nel paese in cui gli imprenditori amano dare lezioni alla politica, fondare partiti, prendere tessere numero uno. L’occasione delle Generali sembra valorizzare perfettamente la ricerca di un ruolo nazionale, come supporto dell’intera impalcatura imprenditoriale, nel modo che gli era più consono. Come è noto la partita ha registrato un tempo favorevole al fronte che gli si opponeva, ma si stavano gettando le basi per nuovi capovolgimenti e per un ulteriore impegno personale di Del Vecchio, con grandi attese per il suo possibile, imminente, tentativo di rientrare nella sfida sulle Generali passanti, questa volta, dalla porta di Mediobanca. Lo schema è sempre quello degli esordi. Una programmazione abbastanza semplice ma che consenta la realizzazione per passi successivi dei suoi progetti. E probabilmente anche il passaggio dall’obiettivo diretto delle Generali all’apparente ripiegamento sul fortino di Mediobanca era stato pensato in anticipo e ora bisogna capire se (e in caso come) possa essere mandato, comunque, avanti. Lo stesso vale per l’evoluzione della sua strategia di presidio totale e perfettamente integrato della filiera dell’occhialeria. Perché quel prodotto perfetto per le sue inclinazioni umane e imprenditoriali e per la situazione storica in cui cominciò la sua avventura aziendale ora cominciava a mostrare, nell’intuizione di Del Vecchio, anche altre possibilità. La posizione d’onore sulle nostre facce, davanti ai nostri occhi, o, meglio, tra il mondo e i nostri occhi, gli era sembrata capace di fornire nuovi sviluppi. La trasformazione dell’occhiale nel mediatore verso il mondo reale e quello virtuale (o quelli virtuali) lo aveva impegnato in questi ultimi anni, con una collaborazione sempre più stretta con Mark Zuckerberg, che aveva incontrato anche molto recentemente. Era il completamento del lavoro sull’occhiale, cominciato in piccole officine, attorno a un prodotto che richiedeva sapere artigianale, competenza e accuratezza, per arrivare al centro delle trasformazioni digitali e legarsi pienamente a esse. In quel progetto Del Vecchio credeva in modo totale, come aveva sempre fatto nella sua attività di imprenditore. Ora si vedrà come sarà possibile mandare avanti il lavoro senza la sua guida. Tutto sempre molto lineare e apparentemente facile, dicevamo, ma poi ci si basava sul suo genio. Tutto facile, tutto determinato, ma poi di amministratori delegati ne sono passati tanti dalle parti di Luxottica e a ogni sostituzione era Del Vecchio a riemergere come motore di tutte le operazioni e come custode della linea originaria.
tra debito e crescita