Una raffineria di Odessa distrutta. L’inflazione energetica ha cominciato a mordere nel maggio 2021 (foto LaPresse)

Rompere gli ultimi tabù sull'energia. Idee anti crisi

Carlo Stagnaro

L’approccio emergenziale del governo ai rincari diventa  insostenibile nel tempo e appare  inadeguato dopo l’invasione dell’Ucraina. La necessità di una terapia ragionevole e solida, coerente con la decarbonizzazione

La crisi delle materie prime ha messo la politica energetica al centro dell’attività di governo e del dibattito pubblico. All’obiettivo di lungo termine di raggiungere la neutralità carbonica si sono così affiancati due ulteriori target più immediati: sostituire il gas russo e mitigare i rincari attraverso un poderoso ricorso alla leva fiscale. Sfortunatamente, se all’inizio c’era coerenza tra questi obiettivi, col passare del tempo essi hanno cominciato ad allontanarsi e ora divergono sempre più. 
In sintesi la faccenda è questa: fin dal maggio 2021, quando l’inflazione energetica ha cominciato a mordere, Mario Draghi e i suoi ministri hanno pensato di trovarsi di fronte a un fenomeno passeggero – una fiammata dei prezzi. Hanno quindi reagito gettando acqua sul fuoco: gli sgravi sulla bolletta della luce, l’Iva ridotta sul gas e, da ultimo, i tagli delle accise sui carburanti per autotrazione. Solo che l’incendio, anziché spegnersi, è divampato sempre di più e il fabbisogno di risorse si è fatto insostenibile. Il governo ha risposto in modo disordinato, cercando di catturare i presunti extraprofitti delle imprese energetiche. Contemporaneamente, già prima della guerra, l’Italia si è lanciata in una crociata europea sull’introduzione di un tetto ai prezzi del gas, e in una parallela campagna nazionale sulla revisione dei meccanismi di formazione dei prezzi sulle borse elettriche. 

 
Intendiamoci: la strategia di Palazzo Chigi non si limita a questo. Sono state avviate anche altre iniziative, più importanti nel lungo termine, come lo sforzo per trovare nuovi fornitori di metano, il rilancio della produzione nazionale di gas e le semplificazioni per le fonti rinnovabili. Ma, pure qui, l’iperattivismo del governo – all’incirca un decreto al mese nell’ultimo anno – ha finito per far perdere di vista i dettagli, marcare il passo nell’attuazione delle misure, e confondere l’obiettivo finale (proteggere l’economia senza rallentare la decarbonizzazione) col più rassicurante tentativo di tappare i buchi della diga con le dita del fisco.

   

E’ quindi utile unire i puntini per capire dove siamo e dove stiamo andando. Per farlo bisogna prendere le mosse dalle cause dei fenomeni che ci hanno portato fin qui e inserirle nel contesto delle politiche energetiche europee. Una volta comprese le ragioni dell’attuale situazione, sarà più facile cogliere i limiti dell’approccio italiano e individuare possibili aggiustamenti. Naturalmente, è importante premettere che – sebbene vi fossero fin dall’anno scorso i segnali di quanto stava per accadere – il problema non sta nella reazione iniziale. E’, anzi, normale che di fronte a un aumento così repentino delle quotazioni dell’energia si sia cercato di mettere una pezza. Questo approccio emergenziale, però, diventa vieppiù insostenibile man mano che il tempo passa e appare del tutto inadeguato dopo l’invasione dell’Ucraina, che ha trasformato un problema finanziario e fisico (di disponibilità di risorse) in una questione geopolitica e di sicurezza.

  
Il bagno di sangue

Il discorso di politica energetica, l’anno scorso, è stato monopolizzato da una dichiarazione del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, che avvertì che – se non adeguatamente governate – le politiche per la decarbonizzazione sarebbero state “un bagno di sangue” (La Stampa, 1° luglio 2021). Parole che trovarono una sponda nel responsabile dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, preoccupato soprattutto dall’allora paventato giro di vite a livello europeo sul motore endotermico. Secondo l’inquilino di Via Veneto, il divieto di immatricolare nuove auto a benzina o diesel dal 2035, che nel frattempo ha ricevuto il via libera dal Parlamento europeo, avrebbe messo a repentaglio una filiera industriale baricentrica in Europa e in Italia. I due ministri furono, all’epoca, oggetto di attacchi violenti. In realtà avevano dato voce a un problema che sarebbe puerile nascondere: se la transizione deve essere sostenuta da politiche pubbliche (divieti, standard, tasse, sussidi), è perché essa implica una torsione del sistema economico che, in assenza di intervento, non ci sarebbe o avrebbe tempi più lunghi. Discutere delle modalità della transizione e metterne in evidenza i costi è essenziale non solo a rendere la transizione stessa socialmente accettabile, ma anche a renderla possibile. Lo ha riconosciuto, seppure tardivamente, Isabel Schnabel, membro del board della Banca centrale europea, in un importante intervento lo scorso 17 marzo, nel quale ha parlato di greenflation – inflazione verde. 

  
Purtroppo, gli avvertimenti di Cingolani e Giorgetti sono serviti a poco. D’altronde la via era stata tracciata da tempo e non c’erano grandi margini di aggiustamento. Il principio guida della politica europea non è liberarsi dalle emissioni, ma liberarsi dai fossili: e tra le due cose c’è un’enorme differenza. Un conto è premiare tutte le tecnologie che consentono di arrivare alla neutralità carbonica (inclusi la cattura della CO2, il nucleare e i carburanti sintetici); altro è sceglierne solo alcune (le fonti rinnovabili, il motore elettrico) e rinunciare a ogni possibile alternativa. Così, gli scorsi anni sono stati caratterizzati da un pauroso declino degli investimenti nell’esplorazione e produzione di oil & gas. Proprio quando pareva che avessimo risolto per sempre il problema della scarsità, con la rivoluzione americana dello shale, ci siamo resi conto che l’offerta non tiene il passo della domanda, a livello globale. Le cause sono molteplici: un lungo periodo di bassi prezzi delle commodity, ulteriormente depressi dal Covid, ha disincentivato la ricerca di nuove risorse. Ma ci sono anche cause politiche e regolatorie: la fuga dei grandi operatori finanziari dagli investimenti fossili è parente stretta della promessa, europea ma non solo, di smarcarci da tali fonti il prima possibile. L’intero dibattito sulla tassonomia, in fondo, nasce dal tentativo di scoraggiare gli investimenti in tale ambito. Sia come sia, il calo ha interessato soprattutto le major occidentali, il cui impegno è letteralmente crollato dai circa 150 miliardi di dollari del 2015 ai 70 del 2021. Il fenomeno è stato meno rilevante per le grandi imprese di stato russe, cinesi e mediorientali, che congiuntamente nel 2021 hanno investito circa 120-130 miliardi di dollari.

  
Ciò ha prodotto due conseguenze. In primo luogo, ha determinato una progressiva erosione della capacità produttiva inutilizzata (spare capacity), cioè della flessibilità con cui l’offerta si adatta alla domanda. Questo ha messo in crisi il sistema all’indomani del Covid: a un 2020 con una domanda (e prezzi) ai minimi storici è seguito un 2021 di ripresa gagliarda e forse inaspettata, durante il quale le commodity hanno cominciato a correre raggiungendo, almeno nel caso del gas e soprattutto in Europa e in Asia, prezzi record. E’ questo che ha indotto il governo italiano, al pari di molti altri, a mettere fin da subito mano al portafoglio. Secondariamente, il disinvestimento delle imprese occidentali ha contribuito a spostare l’asse della produzione verso paesi terzi: non si capisce la crescente dipendenza dalla Russia se non si guarda contemporaneamente al drammatico crollo della produzione europea di gas (passata da 160 miliardi di metri cubi nel 1996 a 50 nel 2020). In una situazione già tesa e critica, Putin ha aggredito l’Ucraina alimentando incertezza, paura e ovviamente spingendo le nazioni importatrici a interrogarsi su come sganciarsi da Mosca.

  
E’ evidente che, in questo scenario, e ancor più nella realtà che si è venuta a creare dopo il 24 febbraio, il movimento dei prezzi dei prodotti energetici non può più essere descritto come un balzo temporaneo, ma ha tutte le caratteristiche di uno spostamento strutturale su un livello più alto di quello a cui eravamo abituati. Ciò non significa che non torneremo verso le medie storiche, ma che ci vorrà un tempo lungo, certamente superiore a due o tre anni. E allora l’unica possibile via d’uscita sta, da un lato, nel contenimento dei consumi, dall’altro nell’aumento dell’offerta. L’uno può avvenire attraverso una maggiore efficienza nell’uso dell’energia, ma inevitabilmente comprende e comprenderà anche una quota di distruzione della domanda – chiusure di imprese, crisi di interi settori industriali e difficoltà delle famiglie a sostenere la spesa energetica. L’aumento dell’offerta richiede invece una strategia più articolata, nella quale hanno grande peso non solo gli interventi diretti dello stato ma anche le azioni del settore privato, che a loro volta dipendono dalle regole in vigore e dalle aspettative (incluse quelle sulle scelte politiche e regolatorie). Quando si parla di aumento dell’offerta, è bene precisare che riguarda sia il gas (e il petrolio), sia quella di fonti energetiche che possono sostituire i combustibili fossili alleggerendo la pressione sui mercati: dalle rinnovabili al nucleare. 

  
Il troppo…

Il governo ha risposto alla crisi aprendo i cordoni della borsa (cioè del debito pubblico). Complessivamente, negli ultimi dodici mesi ha impegnato circa 30 miliardi di euro tra gli sgravi sulla bolletta elettrica e gas, la riduzione delle accise, e altri provvedimenti mirati quali il bonus 200 euro per le famiglie a medio-basso reddito e i crediti d’imposta per le imprese a forte consumo di energia. A cosa sono servite queste risorse? Non c’è modo delicato per dirlo: in gran parte non sono servite a niente. Anzi, hanno creato un problema ulteriore dal quale l’esecutivo oggi fatica a uscire, e più ci avviciniamo alle elezioni, peggio è. 
L’incremento dei prezzi energetici dipende da fattori fisici e, solo in seconda battuta, finanziari. I prezzi indicano scarsità. Interventi di natura fiscale o parafiscale volti a mitigare temporaneamente i rincari hanno un unico effetto: danno la sensazione che le risorse siano più abbondanti di quello che in realtà sono. Sostengono il consumo, disincentivano efficienza e risparmio, scoraggiano investimenti in tecnologie o fonti alternative. Non vale l’obiezione che, nel breve termine, la domanda di energia è rigida e quindi gli incrementi dei prezzi avrebbero semplicemente impoverito i consumatori, senza determinare alcun aggiustamento nei loro comportamenti: a un anno di distanza, e con la prospettiva di molti altri mesi in cui gli sconti saranno continuamente prorogati, il breve termine diventa presto medio e lungo. E le politiche del governo diventano parte del problema anziché essere parte della soluzione. Come ha scritto l’economista Scott Sumner, questi interventi prendono quattro piccioni con una fava: aiutano Putin; peggiorano le emissioni e quindi il riscaldamento globale; alimentano i ricavi dei produttori di petrolio e gas che già, in questo momento, hanno utili record; compromettono le finanze pubbliche. Il suo collega David Henderson gli ha replicato aggiungendo un quinto grande piccione: aumentano la richiesta politica di interventi di controllo dei prezzi. 

   
Rendendosi conto che le cose stavano sfuggendo di mano, il governo ha commesso un secondo errore. Anziché riconoscere che si stava spendendo troppo, ha scelto di colpire i pretesi extraprofitti delle società energetiche. Lo ha fatto con due provvedimenti. A gennaio ha posto un cap ai ricavi dei produttori di energia rinnovabile, in modo da impedire che traessero vantaggio dai prezzi elettrici gonfiati dal costo del gas (sul punto torneremo più avanti). A marzo ha varato un’imposta straordinaria non sugli utili delle società energetiche, ma sulla differenza tra i saldi Iva nel periodo ottobre 2021-aprile 2022 e ottobre 2020-aprile 2021. Anche la genesi di queste misure è istruttiva. Il cap sulle rinnovabili, che originariamente riguardava tutti gli impianti verdi, successivamente è stato limitato a quelli entrati in esercizio prima del 2010, che già beneficiano di generosi incentivi. La tassa sulle società energetiche è stata moltiplicata per due volte e mezzo, passando dal 10 al 25 per cento. Questi cambiamenti sostanziali non sono l’esito della dialettica col Parlamento, ma sono maturati in seno al governo stesso. Segno, come minimo, di un’elaborazione frettolosa di misure che poi ci si è dovuti precipitare a correggere.

  

La fragilità del disegno dell’imposta sugli extraprofitti delle società energetiche. La battaglia per il price cap europeo sul gas e la possibile riforma del funzionamento delle borse elettriche. La necessità di un nuovo sistema di aiuti, di una reale semplificazione, della ripresa della produzione nazionale. L’attesa per il biometano 

  

Una terza tassa fantasma, che avrebbe dovuto colpire gli importatori di gas, era comparsa nelle bozze del decreto di giovedì scorso, salvo poi esserne frettolosamente espunta. Forse l’esecutivo si è reso conto che sarebbe stata controproducente. Sarebbe bastato leggere la relazione che il governo stesso aveva chiesto all’Arera, e che mostrava che non c’è evidenza di anomalie nel prezzo di vendita del gas. 

  
Torniamo al merito. Questi provvedimenti di natura fiscale o parafiscale sperano di ottenere 11 miliardi di euro di gettito addizionale e di contenere i prezzi dell’energia elettrica e del gas. E’ probabile che non sarà così: per esempio, diversi esperti di materia tributaria hanno denunciato non solo la fragilità del disegno dell’imposta sugli extraprofitti e la sua probabile incostituzionalità, ma anche l’estrema incertezza sulla capacità di generare ricavi per l’erario in misura corrispondente alle aspettative. Quale che sia il gettito, quanto più avranno successo, tanto più le tre misure descritte prosciugheranno la cassa di quelle stesse imprese a cui si chiede di accelerare gli investimenti per favorire l’uscita dalla crisi. E qui i nodi vengono al pettine. Non solo le compagnie energetiche sono sotto stress finanziario per l’esosità del fisco e per gli elevati prezzi delle materie prime. Si trovano anche di fronte a un dilemma: fino a che punto fidarsi di uno stato che si dimostra tanto sleale e pasticcione? Come si può investire con fiducia, sapendo che poi c’è il rischio di manovre scomposte come quelle appena viste? C’è del paradossale: alcuni operatori si stanno chiedendo se sia opportuno acquistare a caro prezzo coperture finanziarie per limitare la propria esposizione nel 2022 e nel 2023. Ma una aggressiva campagna mediatica ha presentato le attività di hedging – cioè operazioni di gestione del rischio – alla stregua di manovre speculative. E un ancor più aggressivo disegno dell’imposta sugli extraprofitti punisce gli operatori previdenti, perché non considera il costo delle coperture. Sicché molti esitano e si interrogano. Tutto ciò rischia di tradursi in fallimenti o perdite, che poi potrebbero essere socializzati. Un sistema fiscale che punisce condotte prudenti e disincentiva comportamenti che in altri settori (come quello bancario e del risparmio gestito) sono addirittura obbligatori è profondamente patologico. 

  
Questo non significa di per sé che sia sbagliato utilizzare il denaro dei contribuenti per sostenere un’economia messa in ginocchio dal caro energia. Significa che procedere a sgravi temporanei e generalizzati è uno sperpero di denaro pubblico: difficile chiamarlo debito buono. Il governo dovrebbe invece rafforzare gli strumenti più chirurgici che ha già adottato: i bonus per le famiglie a basso reddito, il contributo da 200 euro (magari abbassando la soglia reddituale per accedervi), le misure a sostegno delle imprese. Siamo arrivati all’assurdo che, da giugno 2021, gli sgravi sull’energia elettrica si applicano anche alle seconde case. Il decreto di giovedì conferma questa scelta, che vale all’incirca 108 euro l’anno per immobile, stando alla sola quota fissa della bolletta: i proprietari di villette al mare e in montagna hanno davvero bisogno della nostra elemosina? Ma questo è la punta dell’iceberg. Un uso più razionale dei dati a disposizione e un ricorso più oculato alla leva fiscale avrebbe ridotto il fabbisogno, dai 30 miliardi già spesi o impegnati a 10-15, facendo venire meno l’esigenza della tassa sugli extraprofitti.

 
… e il troppo poco

Il governo non si è mosso solo sul fronte fiscale: ha anche intrapreso diversi passi su quello regolatorio. Le intenzioni erano le migliori: ampliare l’offerta di energia, in particolare verde, in modo da allineare l’imperativo della sicurezza energetica con quello della neutralità climatica. Ma che dire dell’esecuzione? In alcuni casi, i tempi di attuazione sono incompatibili con l’emergenza. Si è a lungo parlato (e polemizzato) sulla ripresa della produzione nazionale di gas ma i provvedimenti attuativi sono ancora di là da venire. Per quanto riguarda gli stoccaggi di gas, è da febbraio che sappiamo che l’estate sarebbe stata critica, eppure – invece di disegnare una strategia aggressiva per incentivare gli operatori – si è proceduto per piccoli passi, col risultato che adesso, con crescenti difficoltà di approvvigionamento, le scorte sono al di sotto dei target e Snam sta acquistando a prezzi record. La strategia di diversificazione delle forniture è stata delegata, oltre che alla ricerca di nuovi contratti, all’installazione di due rigassificatori galleggianti, che si era detto sarebbero stati pronti entro la fine di giugno e invece, se tutto va bene, lo saranno per l’anno prossimo. Probabilmente non si poteva fare meglio: ma allora perché diffondere target irrealistici, che tra l’altro fanno scendere il senso di urgenza nella popolazione e scoraggiano iniziative di risparmio energetico? E perché, in una situazione tanto grave, non alzare il livello dal preallarme all’allarme, evitando così di mettere in atto misure di contenimento dei consumi? Finora non è partita neppure una campagna di comunicazione istituzionale. E’ come se il governo pensasse alla domanda come a una variabile indipendente che non può essere messa in discussione: quando invece essa rappresenta una specie di gigante addormentato, che potrebbe dare un contributo determinante e invece viene ulteriormente anestetizzato a suon di miliardi pubblici.  

 
E’ infatti su due altri fronti che il governo ha scommesso il suo capitale politico. Uno è la battaglia in sede europea per mettere un tetto al prezzo del gas. Non è chiaro né quale sia il progetto dell’esecutivo, né quali siano le sue reali probabilità di successo: stiamo parlando di un cap relativo alle sole importazioni dalla Russia? Oppure sugli scambi all’ingrosso sugli hub finanziari, come il Ttf olandese e il Psv italiano? Per ora tutto quello che si è ottenuto è un impegno generico a studiare la questione che però, per usare un eufemismo, non sembra destare gli entusiasmi degli altri stati membri. Sul piano tecnico, Acer, l’organizzazione che coordina i regolatori europei dell’energia, ne ha in passato evidenziato i limiti e le difficoltà tecniche. Oppure l’idea è quella di un tetto ai prezzi praticati ai consumatori finali? Nel Regno Unito, dove un meccanismo simile era stato introdotto nel 2017 nonostante le sue evidenti criticità, hanno dichiarato la bancarotta 28 venditori di elettricità e gas su 44, lasciando milioni di clienti privi di un fornitore e quasi 3 miliardi di sterline di insoluti sulle spalle dei consumatori.
Oltre al price cap europeo sul gas, il governo pare essersi lanciato anche in un’avventurosa riforma del funzionamento delle borse elettriche. Sembra che l’obiettivo sia una sorta di disaccoppiamento tra rinnovabili e gas. Per capire la questione serve una breve digressione. Attualmente in Europa (e praticamente in tutti i paesi del mondo in cui il sistema elettrico non è gestito in forma monopolistica) il prezzo si forma seguendo la regola del costo marginale. Essa prevede che, in qualunque ora del giorno, l’energia sia remunerata a un prezzo che dipende dall’impianto più costoso necessario a soddisfare il fabbisogno in quel momento. Ne segue che gli impianti più economici ricevono un prezzo superiore ai loro costi marginali (cioè alla spesa per i combustibili, per esempio il gas, e per la CO2). Questo meccanismo premia le fonti, come le rinnovabili, che hanno costi marginali bassi o addirittura nulli (il sole e il vento sono gratis). Ma c’è una ragione: questi impianti hanno normalmente elevati costi fissi, che possono recuperare solo incamerando la cosiddetta rendita inframarginale.
L’idea di separare le rinnovabili dagli impianti convenzionali – nonostante essi producano un bene assolutamente omogeneo, cioè appunto l’elettricità – non è solo poco utile, ma del tutto fuorviante. Il disegno dei mercati elettrici non è un tema inesplorato: esiste una vasta letteratura e ci sono innumerevoli esperienze. Nei fatti si sono imposti due modelli: quello del prezzo marginale, che è in assoluto il più comune nel mondo, seppure con diverse variazioni; e quello del cosiddetto pay-as-bid, secondo cui ogni impianto dovrebbe, in sede di offerta, dichiarare un prezzo di riserva per entrare in esercizio e, se accettato, ricevere esattamente quello. La questione è abbastanza tecnica ed esula dagli obiettivi di questo articolo. Ciò che conta, tuttavia, è che non si tratta di un dibattito nuovo: c’è già stato vent’anni fa e si è risolto con la vittoria del sistema del prezzo marginale. E’ vero che il cambiamento di paradigma imposto dalla transizione, con la crescita esponenziale della quota di domanda soddisfatta da fonti rinnovabili, può richiedere un aggiornamento delle regole: Acer, in un rapporto di risposta a una domanda della Commissione, ha replicato che il sistema del prezzo marginale rimane preferibile al pay-as-bid. Altri (una minoranza) la pensano all’opposto. Altri ancora (come Michael Grubb) ragionano su modelli ibridi, con un mercato a lungo termine per le rinnovabili e uno a breve per le fonti tradizionali. Tali sforzi sono animati dalla consapevolezza che si tratta di cambiamenti lunghi e complessi. Sono un tentativo di adeguarsi alle trasformazioni strutturali dei sistemi elettrici, non una risposta all’emergenza in atto che ha tutt’altra genesi. La pretesa di ignorare quarant’anni di dibattiti, e di tirare fuori dal cilindro un nuovo disegno di mercato a cui nessuno in tutti questi decenni ha mai pensato, rischia di apparire – per usare un eufemismo – come un fantasioso esercizio del diritto di buttare la palla in tribuna. Tutto ciò senza considerare che le regole sono condivise a livello europeo perché, come ha scritto Acer, l’accoppiamento dei mercati nazionali produce innumerevoli benefici non solo economici, ma anche ambientali e di sicurezza. Per cui i vantaggi, tutti da dimostrare, di uno sdoppiamento del mercato italiano tra rinnovabili e non rinnovabili sarebbero più che compensati dalla perdita di quelli legati allo scambio transfrontaliero di energia. E, prima di ipotizzare una chiusura protezionistica, è bene ricordare che l’Italia è un forte importatore: per esempio, nel mese di maggio 2022 abbiamo esportato 213 GWh a fronte di import quasi venti volte superiore, cioè 4.768 GWh.
Il che ci porta ancora una volta alla questione di fondo: il problema che dobbiamo affrontare non dipende da regole che, pur avendo funzionato perfettamente fino a ieri, sono improvvisamente diventate obsolete. Dipende dallo squilibrio tra domanda e offerta. Come fare ad aumentare quest’ultima? Il governo si è mosso, almeno all’apparenza, in modo corretto. Ha individuato la barriera che frena gli investimenti nelle fonti rinnovabili nel processo autorizzativo e ha varato un pacchetto di semplificazioni per accelerare il rilascio dei permessi.

 
Il primo collo di bottiglia era la Commissione Via. Anche grazie al nuovo presidente Massimiliano Atelli, le cose si stanno finalmente muovendo: negli ultimi mesi sono stati licenziati progetti per una potenza di oltre 5 GW (si pensi che, negli ultimi anni, la media era attorno a 0,8 GW all’anno). Ma la buona volontà, sebbene necessaria, non è sufficiente. E’ opportuno ricordare che, quando le imprese presentano un progetto sottoposto alla valutazione di impatto ambientale nazionale, devono versare un obolo per contribuire a finanziare l’istruttoria. Questo rende la valutazione, in un certo senso, un servizio che i richiedenti pagano. Sembra tuttavia che solo una parte dei contributi versati dalle imprese arrivino effettivamente al Mite: di conseguenza, al di là delle difficoltà pratiche, la Commissione non ha fondi commisurati all’impegno richiesto e le imprese ricevono un servizio inferiore a quello per cui hanno pagato. Si tratta dell’ennesimo balzello improprio: se i denari realmente trasferiti alla Commissione sono sufficienti allora le tariffe sono eccessive; viceversa si fa un torto alle imprese e al paese in generale. Tra l’altro, una dotazione adeguata consentirebbe non solo di digitalizzare i processi e garantirne la sicurezza (poche settimane fa il portale è stato messo fuori gioco a causa di un attacco informatico), ma anche di eseguire i sopralluoghi necessari. Spesso, un parere dato solo sulle carte non riesce a cogliere elementi cruciali della situazione, per cui molti no potrebbero trasformarsi in altrettanti sì.

 
L’iter autorizzativo non si conclude col disco verde della Commissione Via. A quel punto, i progetti devono ottenere il placet delle soprintendenze. Quello che i giornali hanno spesso raccontato come un braccio di ferro tra i ministri Cingolani e Dario Franceschini è, in realtà, più ancora che la dialettica tra due individui, lo scontro tra due culture: non si può liquidarlo ignorando le ragioni del paesaggio. Che debba esserci un controllo per bilanciare i diversi valori, incluso l’impatto sul territorio di progetti spesso invasivi, è del tutto ragionevole. Parimenti non si può fare del paesaggio un feticcio nel nome del quale bloccare opere che il nostro paese si è auto-vincolato a fare. Il governo ha cercato una strada alternativa, in modo intelligente: predefinire i siti non idonei a ospitare le rinnovabili (per ragioni ambientali, paesaggistiche, culturali, di sicurezza, o altro) in modo tale che la restante porzione di territorio sia automaticamente considerata idonea. Sennonché si è contemporaneamente definita una fascia di rispetto dell’ampiezza di 7 km per l’eolico e 1 km per il fotovoltaico attorno ai siti non idonei: il risultato è che sovrapponendo le varie ragioni di inidoneità con le relative fasce di rispetto, praticamente non resta nemmeno un fazzoletto di territorio che sia sottratto ai veti incrociati delle varie amministrazioni.

 
Conclusioni

La morale di questo lungo racconto è che il governo si è dato scacco matto da solo. La sua reazione ai rincari era legittima nell’immediato, ma più il tempo passa, più si rivela insostenibile. E, drammaticamente, più si avvicinano le elezioni, più l’esecutivo ci si trova ingabbiato. Inoltre, l’eccessiva attenzione a temi troppo ambiziosi per un esecutivo con un anno circa di vita residua prima del voto – dalla riforma dei mercati elettrici alla regolamentazione dei prezzi del gas sugli hub finanziari europei – ha distratto risorse, attenzione e capitale politico dagli interventi che davvero sarebbero a portata di mano. 
Quali? Anzitutto disegnare un sistema di aiuti che non abbia come obiettivo quello di annacquare il segnale di prezzo ma quello di soccorrere chi, tra famiglie e imprese, ne ha realmente bisogno. In secondo luogo, facendo delle semplificazioni non solo una bandiera da sventolare, ma una realtà concreta dei nostri processi autorizzativi. In terzo luogo, concentrandosi sull’attuazione di provvedimenti cruciali che altrimenti rischiano di rimanere solo sulla carta: la ripresa della produzione nazionale, il riempimento degli stoccaggi, l’installazione di nuove infrastrutture per l’import di gas. Per non citare i mille altri casi di tecnologie e fonti di energia che potrebbero alleviare la condizione del nostro paese: da settimane si attende il decreto col nuovo quadro regolatorio sul biometano, per citarne uno cruciale in questa fase di scarsità di gas. O il ruolo delle biomasse nella nostra economia, che ne ha un importante potenziale vista l’estensione del settore agricolo. O, ancora, attivare strumenti di coinvolgimento della domanda nei mercati elettrici per cercare di risolvere gli squilibri con un incentivo implicito a spostare i consumi verso le fasce orarie in cui l’offerta è più abbondante. Lanciare subito una campagna di comunicazione per promuovere il risparmio energetico e la moderazione dei consumi. Introdurre strumenti innovativi per favorire le fonti rinnovabili, come per esempio forme di garanzia pubblica o altri meccanismi di incentivo per i contratti di fornitura di lungo termine tra produttori rinnovabili e grandi consumatori o aggregatori di domanda. Dare rapida attuazione alle misure del ddl Concorrenza sulle gare per l’idroelettrico, in modo da liberare il valore incagliato nei grandi bacini. Infine, guardare più a medio termine, per non arrivare fuori tempo massimo alle importanti scadenze che abbiamo davanti – dalla liberalizzazione del mercato elettrico e gas (2024) alla celebrazione delle gare per le reti locali gas fino alla riassegnazione delle concessioni per la distribuzione elettrica (che va definita entro il 2025). 
Il governo si è insomma cacciato in un angolo dal quale sembra vedere le politiche energetiche in modo strabico: un occhio è ossessivamente rivolto al presente, e quindi ragiona solo in termini di misure emergenziali; l’altro guarda a un futuro lontano e forse impossibile nel quale vengono stravolte regole scritte a metà anni Novanta e riconfermate dallo stesso governo Draghi solo pochi mesi fa col decreto di recepimento delle nuove direttive sul market design. Quello che finora è mancato è probabilmente un tentativo di leggere le cause della crisi, e predisporre una terapia proporzionata e coerente con l’altro grande asse della nostra politica energetica, cioè la decarbonizzazione. L’esecutivo ha pochi mesi prima delle elezioni: dovrebbe usarli per predisporre un sentiero ragionevole e solido, anziché lasciare in eredità alla prossima legislatura un disordinato e frenetico affastellarsi di provvedimenti ciascuno dei quali tenta – spesso senza riuscirci – di riparare i guasti di quello precedente.
  

Carlo Stagnaro è direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. Con Alberto Saravalle ha scritto “Molte riforme per nulla” (Marsilio, 2022).