Le soluzioni
Perché il gioco russo del petrolio rischia di infastidire Iran e Venezuela
I due paesi sono anch'essi tra i più importanti produttori che non sono nell'orbita delle democrazie ma, con una rinnovata apertura commerciale potrebbero allontanarsi dalle autocrazie, soprattutto quella del Cremlino
Il prezzo del petrolio era salito prima dell’aggressione all’Ucraina, perché con la fine della prima ondata di Covid la domanda era ripartita, mentre l’offerta non era abbastanza elastica da ascendere a sufficienza per tenere i prezzi contenuti. Non era abbastanza elastica per due ragioni. La prima. Per effetto dei minori investimenti fatti nel pieno della caduta delle economie che si era avuta con il Covid, perché era prevalsa l’idea che la crisi potesse durare ancora. Si aveva questo giudizio legato alla congiuntura, ma se ne aveva un altro legato alla struttura, perché all’epoca si temeva che la svolta verso le energie alternative si sarebbe materializzata in un tempo non lunghissimo. La seconda. Per effetto del comportamento dei paesi produttori di petrolio che, frenando la maggior offerta possibile quando la domanda è ripartita, hanno pensato di potere, grazie ai maggiori prezzi che ne scaturivano, di rifarsi dei magri bilanci del periodo precedente.
Poi è arrivata l’aggressione dell’Ucraina. Il prezzo del petrolio è prima salito, ma poi, in questi giorni, è tornato, probabilmente scontando l’attesa di un forte rallentamento dell’economia, ai livelli pre bellici. Si sono prima avute le sanzioni occidentali. Le contro sanzioni russe sono arrivate dopo, quando si è discusso di un taglio da parte europea degli acquisti di petrolio russo. Le contro sanzioni hanno presso la forma di una rarefazione delle esportazioni di gas. Come reazione, i consumi di gas delle famiglie e delle imprese si stanno riducendo, mentre sta crescendo l’accumulazione di scorte.
La produzione di petrolio esportata è una quota rilevante delle entrate dello stato russo che deve finanziare sia il consenso dei pensionati e dei dipendenti pubblici – la base elettorale di Putin – sia le spese militari. Segue che un taglio delle importazioni europee, o l’imposizione di un tetto al prezzo, metterebbe in seria difficoltà lo stato russo. Come reazione ai proventi petroliferi minori si possono alzare le imposte o tagliare la spesa. Due opzioni difficili da mettere in pratica. Si può, in alternativa, vendere il petrolio già venduto agli europei ai paesi terzi. Non è facile, perché il petrolio è trasportato per nave, e qui scatta il vincolo delle assicurazioni che sono in gran parte occidentali e quindi non disponibili, e delle navi petrolifere che sono in gran parte greche.
Ma ammettiamo che l’esportazione di petrolio russo già venduto in Europa sia possibile. I maggiori produttori di petrolio sono i paesi del Golfo, gli Stati Uniti, e la Russia. I primi sono dei venditori che hanno dei compratori, i secondi sono autosufficienti, i terzi sono dei produttori che devono trovare dei compratori. Avremmo quindi l’Europa che cerca di sostituire il petrolio russo con il petrolio non russo, gli Stati Uniti che sono autosufficienti, e i russi che cercano di vendere il petrolio già venduto all’Europa ad altri paesi (quali?). Fra i produttori abbiamo anche l’Iran e il Venezuela. Due paesi che non sono nell’orbita delle democrazie. I paesi del Golfo non sono democrazie, ma sono politicamente nella loro orbita.
Una vendita di petrolio che sia circa pari a quanto la Russia ricavava dall’Europa non può certo essere di modesto ammontare. I prezzi dovrebbero quindi crollare. Ma i prezzi dovrebbero aumentare per gli acquisti europei di petrolio dai paesi del Golfo, ma anche dall’Iran e dal Venezuela. I due vettori potrebbero anche bilanciarsi, lasciando il prezzo del petrolio dove è. Come che sia, l’Iran e i Venezuela incomincerebbero grazie alla rinnovata apertura commerciale a entrare nell’orbita occidentale e quindi ad allontanarsi dall’orbita delle autocrazie, soprattutto da quella russa, che così perderebbero due paesi importanti per le loro strategie.