(Foto di Ansa) 

Prezzi e conflitti

Chi pensa che l'inflazione abbia a che fare con la guerra sbaglia

Giampaolo Galli

No, l'aumento dei prezzi non ha nulla a che fare con il sostegno all’Ucraina: in realtà tutte le materie prime sono aumentate prima dell'inizio dell'invasione russa

In un precedente articolo su questo giornale (15 luglio) ho argomentato che la spinta inflazionistica che colpisce quasi tutti i paesi avanzati precede la guerra contro l’Ucraina e ha ben poco a che fare con la guerra o con il coinvolgimento dei paesi della Nato, via sanzioni o invio di armi. Ho anche mostrato che dall’inizio della guerra i prezzi della maggior parte delle materie prime non sono aumentati, ma sono diminuiti, pur rimanendo su livelli storicamente molto alti. Purtroppo, la stragrande maggioranza della popolazione, non solo in Italia, è convinta del contrario e pensa che l’inflazione sia una conseguenza del nostro coinvolgimento nelle guerra. A questa convinzione hanno contribuito molti di coloro che fino a pochi mesi fa sostenevano che l’inflazione era un fenomeno temporaneo; la guerra è stata un’ottima scusa per non doversi scusare per l’errore di previsione. A sua volta questa convinzione diffusa spiega la stanchezza dell’opinione pubblica e la difficoltà di molti governi a continuare a sostenere l’Ucraina, come è invece necessario. Si può riconoscere la buona fede, ma non si può non vedere che la narrazione secondo cui ci sarebbe un nesso fra il nostro coinvolgimento nelle guerra e l’inflazione equivale a portare davvero un mare di acqua al mulino di Putin; anzi, è forse questa la principale arma in mano a Putin per dire che la sanzioni fanno più male a noi che alla Russia. Che all’incirca dall’inizio della guerra le materie prime stiano diminuendo è evidente dai dati che ho già mostrato.

 

Per il grano dovrebbe ormai essere chiaro a tutti dal momento che gli agricoltori stanno scendendo in piazza per protestare per l’eccesso di ribassi. Per completare l’argomentazione, occorre capire che qual è la narrazione giusta. Per rispondere possiamo basarci sulle analisi che sono state fatte sulla situazione prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio. Vi era allora un certo consenso, anche fra le banche centrali, sul fatto che nel 2021 vi era stato un fortissimo aumento della domanda mondiale a cui l’offerta non era riuscita ad adeguarsi: di qui, gli aumenti di quasi tutte le materie prime e non solo di quelle energetiche. Come scrive la Banca d’Italia nella relazione annuale, all’aumento della domanda nel corso del 2021 hanno contribuito politiche monetarie e di bilancio eccezionalmente espansive, sincrone in quasi tutto il mondo. 


Dal lato dell’offerta vi sono state difficoltà di adeguamento al boom di domanda che hanno creato colli di bottiglia in tantissime attività. I colli di bottiglia sono in parte un fatto temporaneo: occorre del tempo per fare gli investimenti necessari per adeguare l’offerta. In parte però riflettono un fenomeno strutturale molto importante: la rottura e la riorganizzazione della catene globali del valore. In passato eravamo abituati a vedere una crescita del commercio mondiale sempre superiore a quella del Pil mondiale.

 

Questo avveniva perché procedeva la globalizzazione e si aprivano nuovi mercati in particolare in Asia a nell’est Europa. In buona parte la crescita del commercio era il risultato della catene del valore di imprese che andavano alla ricerca di bassi costi del lavoro. Secondo un calcolo recente pubblicato su Project Sindacate, fra un terzo e metà delle esportazioni cinesi era attribuibile alle imprese multinazionali. Ciò contribuiva a tenere bassi i prezzi nei paesi avanzati. Fra il 1990 e il 2008, il prezzo delle importazioni di manufatti degli Stati Uniti dal resto dei paesi avanzati aumentò del 33 per cento, mentre il prezzo dei beni importati dai paesi emergenti aumentò solo del 3,4 per cento. Dal 2009, gradualmente la globalizzazione si è fermata e la crescita del commercio mondiale è risultata inferiore a quella del Pil. La situazione è precipitata con le tariffe imposte dall’amministrazione Trump, con le chiusure all’estero attuate per fermare la diffusione del Covid, con l’aggressività manifestata in molti campi dalla Cina e poi dalla Russia.

 

In sostanza, l’Occidente sembra aver voglia di chiudersi, in parte per buoni motivi (l’aggressività di Russia e Cina), ma in parte per il prevalere di spinte sovraniste e nazionaliste. E molti paesi stanno invitando, spesso anche con cospicui incentivi monetari, le proprie imprese a tornare in patria o comunque in paesi vicini o amici. Tutto ciò è molto costoso e, al di là degli effetti di lungo periodo, comporta enormi investimenti che costano e che rendono difficile adeguare l’offerta alla domanda. Di qui l’inflazione. E di qui una facile previsione: dato che la crescita mondiale sta rallentando e i prezzi delle materie prime stanno scendendo, nei prossimi mesi vedremo un’attenuazione del fenomeno inflazionistico, ma l’era della globalizzazione crescente non tornerà presto. Ciò significa che sta venendo meno uno dei fattori di fondo che negli anni passati ha contribuito a tenere bassa l’inflazione. 

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