il destino della draghinomics
L'agenda strappata di Francesco Giavazzi
Che fine farà la tela di interventi tessuta dall'economista per supportare il governo di Mario Draghi? Storia di un’amicizia e di un metodo che ha portato alla sostituzione di Arcuri e che voleva rivoluzionare le ingessature dell’economia italiana. Dalle nomine alle liberalizzazioni
L’Incompiuta. La sinfonia numero 8 in si minore di Franz Schubert viene subito in mente guardando, con un pizzico di distacco, quel che resta dopo il “regicidio” di Mario Draghi. Siamo pronti a scommettere che ha sentito nella sua mente quelle note dolenti e laceranti, un appassionato di musica classica come il professor Francesco Giavazzi, l’uomo che in questi mesi è stato più vicino al capo del governo. Una coppia nata molto tempo fa che si è cementata ancor più durante questa comune (dis)avventura. Si conoscono a Boston, Massachusetts, sotto le ali di Franco Modigliani, sono tra i pochi studenti italiani a ottenere il dottorato, anche se poi seguiranno strade diverse. Draghi, maggiore di due anni (è nato a Roma nel 1947, Giavazzi a Bergamo nel 1949), lascia la ricerca pura per l’azione, ma il loro rapporto ha resistito alla prova del tempo e persino a quella dei tassisti. “Cervelli venduti ai poteri forti”, secondo la coalizione nazional-populista che li ha sempre avversati, o profeti disarmati sotto il bersaglio del circo mediatico-politico? Draghi entra nel fortilizio di palazzo Sella nel 1992 come direttore del Tesoro chiamato da Guido Carli il quale, per restituire peso alla struttura, aveva ricreato un consiglio tipo brain trust. Giavazzi arriva in quello stesso anno con funzioni anche operative nel servizio delle privatizzazioni e del debito sotto il diretto controllo di Draghi. E’ lì che i due “amici americani” compiono il salto dalla teoria alla prassi.
Passionale quando si tratta di sostenere fino in fondo le proprie idee, ma nello stesso tempo uomo posato, un carattere difficile per chi non ama le posizioni nette, il professore nel corso degli anni ha dettato la linea soprattutto grazie ai suoi editoriali sul Corriere della Sera dove lo ha portato Ferruccio de Bortoli che gli è molto vicino, tanto che si è parlato più volte di “agenda Giavazzi” come vademecum per i governi liberal-riformisti. “Il liberismo è di sinistra”, ha scritto nel 2007 in un pamphlet con Alberto Alesina, uno dei più dotati economisti italiani anche lui americano (a Harvard) prematuramente scomparso due anni fa. Una definizione che ha suscitato il sarcasmo di Giulio Tremonti il quale lo cita spesso insieme all’articolo scritto il 16 settembre 2008 dopo il crollo di Lehman Brothers: “Ieri è stata una buona giornata per il capitalismo”, così l’attacco di un’analisi che spiega perché il crac della banca d’affari è “una vittoria del mercato”. Ironie a parte, il modo in cui negli Stati Uniti sono stati gestiti i salvataggi pubblici delle banche e dei colossi automobilistici è da manuale della buona politica economica. A differenza dei pasticci combinati in Europa fino alla crisi dei debiti sovrani e al draghiano “whatever it takes” dieci anni fa.
Si conoscono a Boston sotto le ali di Franco Modigliani, sono tra i pochi studenti italiani a ottenere il dottorato. Poi seguiranno strade diverse
Giavazzi non molla. Con i capelli diritti (anche se ormai diradati) sulla spaziosissima fronte, chi lo conosce ricorda la sua utilitaria, l’appartamento nel centro di Milano; una casa a Venezia (a Cannaregio); l’andirivieni con Cambridge, Massachusetts. Ama trascorrere il tempo con le figlie avute con sua moglie, il cui padre Francesco Cingano ha trascorso una vita tra Banca commerciale e Mediobanca; riceve poco, ma, se invitato, esce volentieri; gli piace correre, ascoltare musica, leggere i classici, ma si occupa quando può persino delle sue mucche bergamasche. Conosce il gioco duro, forse però non aveva ancora sperimentato quanto fosse duro il gioco del potere politico.
Giavazzi non manca mai di ricordare il suo rapporto con Modigliani, del quale espone la foto nello studio all’università Bocconi. Marco Ferrante in un ampio ritratto pubblicato sul Foglio nel 2005 racconta che il premio Nobel dicesse di lui, quando arrivò al Massachusetts Institute of Technology: “Non sa l’economia e l’imparerà, ma conosce benissimo la matematica”. Infatti, Giavazzi si è laureto ingegnere al Politecnico, prima di approdare alla “triste scienza”. L’altro suo punto di riferimento è sempre stato Rudiger Dornbusch, tedesco americano, allievo del premio Nobel 1999 Robert Mundell, egli stesso avrebbe potuto vincerlo se non fosse mancato all’improvviso nell’estate del 2002. Ha insegnato a due generazioni di studiosi come collegare analisi finanziaria, macroeconomia e politica fiscale, una sintesi teorica che ingloba John Maynard Keynes e Milton Friedman, aspettative razionali e public choice, nel tentativo di trovare una nuova strada, quella contro la quale si sono scagliati i nazional-populisti ogni volta che si è provato a metterla in pratica. Con l’apertura alla concorrenza, con le nomine ai vertici delle imprese a partecipazione statale, con le privatizzazioni, con la libertà del commercio, con la globalizzazione. E con la odiata austerità. Giavazzi, sempre insieme ad Alesina, nel 2019 teorizza “l’austerità espansiva”: parte subito l’anatema da destra e da sinistra. Di austerità ne ha praticata davvero poca il governo Draghi: il debito pubblico è aumentato di 60 miliardi di euro e sono stati spesi 33 miliardi in sostegni e aiuti assistenziali. Ma è impossibile staccare le etichette appiccicate con la colla del pregiudizio.
Il metodo Draghi-Giavazzi contro il manuela Cencelli per spartirsi le nomine. Ora partiti e gruppi di pressione consumano le loro vendette
Non ha mai militato in nessun partito, però da giovane Giavazzi era stato agganciato da Claudio Martelli, anche se la sua impostazione culturale lo colloca piuttosto in quell’ampio coté culturale liberal-progressista nato con il Partito d’azione. Ha collaborato con Francesco Rutelli a Roma, con Massimo D’Alema a palazzo Chigi, ha buoni rapporti con Romano Prodi e con Enrico Letta. Per Salvini è l’emblema di tutto quel che detesta e il capo leghista ha messo sotto accusa “le manine che intervengono su nomine e decreti”. Ma l’asse con Draghi non si è mai allentato. Chi ha lavorato a Palazzo Chigi racconta che dal suo ufficio il capo del governo aveva un canale diretto con la stanza del suo consigliere principe, a lui si rivolgeva in prima istanza per decidere su questioni controverse di politica economica e gli aveva di fatto delegato alcuni dossier pieni di spine a cominciare proprio dalla scelta dei manager fuori dalla cerchia dei “boiardi di stato”.
A primavera scadranno i vertici dei più grandi gruppi a partecipazione statale: Claudio Descalzi (amministratore delegato dell’Eni dal 2014), Francesco Starace (Enel, anch’egli in carica dal 2014), Matteo Del Fante (Poste italiane, dal 2017), Stefano Donnarumma (Terna, dal 2017), Alessandro Profumo (Leonardo dal 2017), Cristiano Cannarsa (Consip dal 2017) e Paolo Simioni (Enav dal 2020). Una grande partita di potere che a questo punto sarà giocata dal prossimo governo e dalla maggioranza che uscirà dalle urne. Il metodo Draghi-Giavazzi ha introdotto una frattura con la logica spartitoria da manuale Cencelli. La decisione più clamorosa e apprezzata è stata la rimozione di Domenico Arcuri piazzato dall’asse giallo-verde (lo stesso che ha accoltellato Draghi, “regicidio” per usare la definizione di Beppe Grillo) a gestire la pandemia e abbiamo visto come. Al suo posto un generale degli alpini, Francesco Paolo Figliuolo. Poi Arcuri ha perso anche la poltrona di Invitalia alla quale era rimasto attaccato, a favore di Bernardo Mattarella, nipote del presidente che si è fatto le ossa nelle agenzie e nelle banche pubbliche, mentre la presidenza è andata da Rocco Sabelli (dalla Piaggio di Roberto Colaninno all’Alitalia che lascia nel 2011 dopo averla portata in pareggio). Alla Cassa depositi e prestiti è andato Dario Scannapieco che aveva lavorato con entrambi al Tesoro, ma è stato per 15 anni vicepresidente della Banca europea per gli investimenti. Una scelta che preclude a un cambio di strategia della Cdp: da holding di partecipazioni a banca d’investimento, ispirata in parte proprio dal modello Bei. Si è chiusa la lunga era di Giuseppe Bono alla Fincantieri sostituito da Pierroberto Folgiero che viene da Marie Tencnimont, società privata di ingegneristica e costruzioni, mentre la presidenza è andata al generale Claudio Graziano, ex capo di stato maggiore dell’esercito. Alla Snam, società chiave per i metanodotti, Marco Alverà ha lasciato la guida a Stefano Venier che proviene dalla multiutility emiliana Hera. Come si vede la logica è sempre la stessa: competenza, esperienza sia nel privato sia nel pubblico, lontananza da partiti e gruppi di pressione politici. Che adesso consumano le loro vendette.
L’assedio dei tassisti: Giavazzi nel 2006 li chiamò “hooligans”, loro hanno invitato a tormentarlo per il resto della vita, a suon di clacson sotto casa
Un’altra brutta rogna sono le liberalizzazioni. Qui il governo non aveva molti margini, la querelle dei bagni a mare si trascina da una infinità di anni e con essa quella dei tassisti con la loro lotta perenne prima contro l’apertura del mercato delle licenze e ora contro Uber, però sono stati sottoscritti impegni stringenti con l’Unione europea. Non c’è più tempo e il fattore tempo è la novità forse più importante dell’intero Pnrr: se non si varano le riforme e se non si realizzano le opere rispettando un calendario preciso, i finanziamenti non arrivano o dovranno essere restituiti. Dentro questa cornice rigida gli spazi di manovra sono davvero pochi. Giavazzi in ogni caso non ammette deroghe. “L’esitazione in tema di concorrenza è una delle cose che più colpisce in un governo che tanto parla di modernità. E intanto consente che le mille lobby che difendono i loro privilegi smantellino in Parlamento la legge sulla concorrenza – già era un testo all’acqua di rosa”, aveva scritto nel 2016 sul Corriere della Sera tirando gli orecchi al governo Renzi. E non ha intenzione di rimangiarsi la parola nemmeno a Palazzo Chigi. L’assedio dei tassisti che hanno spadroneggiato nel centro di Roma ha colpito Draghi al punto da spingerlo a usare parole durissime nel suo discorso al Senato. Ha meravigliato meno Giavazzi il quale nel lontano 2006 disse che facevano “gli hooligans” e loro a Milano hanno invitato a tormentarlo per il resto della sua vita, a suon di clacson sotto casa. Un ragazzo che aveva strappato il manifestino giudicandolo “incivile” è stato aggredito da un energumeno “autista di piazza” come si diceva una volta. Oggi a Milano spicca uno striscione “Ora e sempre nemici di Draghi”. Cavalcati dai nazional-populisti, possono vantare di aver contribuito alla sua caduta. Un’altra tacca sul tassometro finché non saranno travolti dalla loro miope arroganza.
Se al governo va la destra i dossier aperti saranno in discussione. Se vince il centrosinistra, sarà con forti contrasti interni. Il partito dei No è trasversale
Ma le trappole non finiscono mai e chi governa deve abituarsi a navigare, un po’ di bolina, controvento, un po’ di piccolo cabotaggio. Uno dei dossier aperti (lo erano da anni e lo saranno ancora a lungo) è la possibilità di portare internet veloce in tutta Italia. La rete unica resta a bagnomaria. Per circa un anno ci si è barcamenati tra la posizione originariamente contraria di Vittorio Colao, ministro per la Transizione digitale, e quella di Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo economico. Non è esattamente pane per i denti di Draghi, la posizione liberista di Giavazzi lo spingeva a parteggiare per Colao, l’ottimo rapporto che si era stretto con Giorgetti lo spingeva in senso opposto. Fatto sta che il governo non ha esercitato quel ruolo di guida ferma per compiere una scelta chiara in un senso e nell’altro. Anche sull’accordo tra Ita e un grande partner industriale il governo ha traccheggiato tra l’offerta Msc-Lufthansa e quella Air France-Delta. Negli ultimi giorni sembrava prevalesse la prima. Ma adesso? Di sconfitta vera e propria bisogna parlare a proposito del Monte dei Paschi di Siena. La sua vendita, rinviata di anno in anno, tra resistenze locali, pandemia, difficoltà oggettive della banca pur ripulita di molti prestiti ormai marci, è caldeggiata da Giavazzi e considerata inevitabile da Draghi. Ma il governo ha ricevuto un cocente rifiuto da Andrea Orcel, nuovo amministratore delegato di Unicredit che sembrava il partner ideale. Il resto è silenzio.
Se al governo va la destra i dossier aperti saranno rimessi in discussione. Spiagge, taxi, banche, aerei, internet, nomine. In alcuni casi ci sono divergenze radicali, in altri una impostazione opposta, quanto al risiko delle aziende pubbliche, c’è grasso che cola. Se vince il centrosinistra (coalizione ancora tutta da comporre) oggi come oggi prevale il dubbio che sia in grado di portare in porto quel che Draghi non è riuscito a fare finora, perché i contrasti sono forti anche nel suo schieramento (gas, nucleare, immondizia da termovalorizzare, salario minimo o salario medio, i tamburi di latta dei sindacati). Il partito dei No è trasversale, ma fa più male a chi vuol cambiare. Quanto alle riforme, Francesco Giavazzi l’aveva già capito tempo fa come sarebbe andata a finire. Chissà se durante il martirio del suo amico Mario Draghi avrà ripreso in mano un lavoro del 2008 che calza a pennello con l’italico naufragio.
E’ un saggio in lingua inglese (of course) pubblicato sulla Review of Economic Statistics e scritto insieme a Michael McMahon dell’università di Warwick che parte dal basso, cioè dalla ricerca sul campo studiando in dettaglio come le famiglie rispondono all’aumento dell’incertezza politica. I dati risalgono al 1998 e riguardano la Germania, ma parlano anche all’Italia di questo 2022. Il governo tedesco nel 1997, un anno prima delle elezioni, aveva proposto una profonda riforma delle pensioni. Con l’avvicinarsi del voto le famiglie misero al sicuro i propri risparmi, e questo è naturale. Più sorprendente è l’effetto negativo anche sul mercato del lavoro, perché la tendenza di fondo ha visto aumentare il tempo impiegato alla ricerca di un’occupazione da parte di chi poteva aumentare le ore lavorate in part-time. Un desiderio di stabilità in tempi altamente instabili, anche a costo di perdere un po’ di salario. Alle urne Kohl venne sconfitto dal socialdemocratico Gerhard Schröder, il quale non è solo l’uomo di Gazprom, ma ha messo mano a una riforma radicale del mercato del lavoro che gli è costata il posto di cancelliere. Gli autori concludono che un aumento dei livelli di incertezza, dovuto alle “guerre d’attrito” che si manifestano con un maggior dissenso politico e i possibili ritardi nell’approvazione delle riforme o nella revoca di riforme precedenti, ha conseguenze economiche che possono rallentare la crescita. Oggi in Italia gli “attriti” sono diventati scontro di tutti contro tutti e in campo aperto. E senza neppure la convenzione di Ginevra. “Tragica”, come la quarta sinfonia di Schubert.