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controcorrente

Non si può chiedere alle aziende di salvare il pianeta

Franco Debenedetti

La finanza deve dedicare ogni sforzo alla lotta contro il cambiamento climatico? Ci sono considerevoli ragioni per dubitarne

"Il comitato per salvare il pianeta", lo ha chiamato l’Economist, e ne ha scritto diffusamente Marco Bardazzi sul Foglio del 25 Giugno (“Chi ha paura del capitalismo verde”): ne fanno parte Mark Carney, Jamie Dimon e Larry Fink che dichiarano di voler usare il loro potere per ottenere che “imprese e finanza dedichino ogni sforzo alla lotta contro il cambiamento climatico”. E di potere ne hanno: Cherney è l’ex governatore della Banca d’Inghilterra, Jamie Dimon è l’amministratore delegato della JPMorgan Chease, e Larry Fink di Blackrock, il più grande fondo di investimento del mondo. Vogliono che “imprese e finanza dedichino ogni sforzo alla lotta al cambiamento climatico”. Ma sono convinti che questo non si possa fare senza “ripensare il capitalismo, fare della sostenibilità il cuore del business”.

 

Il capitalismo che vorrebbero “riformare” è quello della famosa frase di Milton Friedman nel suo famoso articolo del 1970, per cui “una e una sola è la responsabilità sociale delle imprese, accrescere i profitti”. Solo che non vanno avanti a leggere: i dirigenti d’azienda che si propongono fini diversi, scrive Friedman, in realtà impongono una tassa agli azionisti; e poiché uno dei fondamenti di un paese democratico è che le tasse siano imposte con una legge votata da rappresentanti eletti, chi si propone obiettivi diversi da quello dell’interesse degli shareholder, persegue propri obiettivi politici senza avere la legittimazione a farlo. Si incomincia col voler riformare il capitalismo e si finisce col ledere un caposaldo della democrazia: no taxation without representation.

 

Bardazzi fornisce esempi raccapriccianti di come i nostri riformatori, da soli o con l’aiuto di amministratori locali, perseguano obiettivi o dichiaratamente politici – spostare la maggioranza dall’uno all’altro partito – o al limite dell’illecito societario, far nominare membri di consigli di amministrazione per condizionare le strategie di grandi aziende. Vogliono “trovare la purpose, lo scopo di fare impresa”? Lo chiedano a chi gli ha affidato i suoi risparmi da gestire: quale scopo era inteso che essi perseguissero? Nel dubbio e per quanto mi riguarda, io i miei risparmi a loro di certo non li do. 

 

“Lo stakeholder capitalism è progressismo parassitico” titola il Washington Post un articolo di George Will (22 giugno): mentre ciascuno ha diritto a sostenere politiche progressiste, nessuno ha diritto a volere che una parte di un bene altrui serva gli obbiettivi politici di manager. Tutt’altra cosa è indicare agli investitori comportamenti economici coerenti con le loro idee, cioè come fare a “put your money where your mouth is”. Nel ‘700 il rev John Wesley invitava i metodisti a non finanziare imprese che non ripudiassero lo schiavismo; in passato ci sono stati risparmiatori che non volevano che i loro soldi andassero a comperare sin stocks, cioè azioni di società coinvolte in armi, liquori, pornografia, gioco d’azzardo; o magari che distribuissero preservativi in Africa. Oltre ai beni materiali (le fabbriche) e a quelli immateriali (le idee, i brevetti) ci sono i beni reputazionali. La velocità con cui si trasmettono le informazioni ha aumentato a dismisura il loro valore, non averne cura può provocare disastri. Il caso esemplare è quello della Nike che rischiò di fallire quando i genitori vennero a sapere in che condizioni lavoravano i bambini del Bangladesh che cucivano i palloni che essi regalavano ai loro ragazzi. Quanto costò alla BP, in risarcimenti e in reputazione, il disastro di Deepwater Horizon, o alla Exxon quello della Valdez in Alaska? E prima, quando il paese si dilaniava sul Vietnam, quanto a Monsanto e Dow l’aver prodotto l’Agent Orange che il Pentagono usava per stanare i Vietcong? Quali le cause per cui la VW si è infilata nel disastro del Dieselgate?

 

Oggi sul tema della lotta al cambiamento climatico c’è una sensibilità vivissima: la gente chiede ai governi di dare priorità alle politiche di decarbonizzazione, e alle singole aziende di prendere iniziative per ridurre la propria impronta carbonica. Più in generale, di adottare politiche ESG, cioè ambientali (la E di Environment), Sociali (verso gli stakeholder) e di Governance (strutture di comando e pratiche di non discriminazione), e di farsele certificare da società di rating specializzate, come la Morningstar, la Sustainanalytics, la RobecoSam e altre. Il cambiamento climatico è un’esternalità negativa; ma a differenza dallo scaricare inquinanti nei fiumi, non basta sanzionare chi inquina con leggi uguali per tutti e valide per tutto lo Stato: la lotta al cambiamento climatico richiede di essere coordinata a livello planetario, come con gli accordi di Tokyo e di Parigi, o almeno a livello comunitario, come con il protocollo europeo per la decarbonizzazione. E’ vero che a inquinare sono gli individui e le imprese, ma siamo sicuri che il risultato complessivo di singole iniziative non coordinate produca un risultato positivo? Non possiamo conoscere tutte le conseguenze di un nostro atto: in un sistema complesso, il risultato di singole azioni virtuose può essere inefficace o perfino dannoso. 

 

Per due del “comitato per salvare il pianeta”, i CEO di JPMorgan Chase, la più grande banca americana, e di Blackrock, il più grande fondo di investimenti, si aprono questioni delicatissime. Si è accennato al dovere di fare l’interesse economico di coloro che per questo gli hanno confidato i loro risparmi: si rispetta il dovere fiduciario investendo in società con rating ESG? In altri termini, è più conveniente investire in ESG oppure su tutto il mercato senza questo vincolo? E’ indiscutibile che, se è ridotto il numero di aziende in cui si può investire, si ha meno possibilità di diversificare, quindi di ridurre il rischio. Va notato che le decisioni di investimento di cotanti giganti finanziari possono determinare aumenti di valore a cui non corrisponde nessun fatto economico reale; non sarà manipolazione del mercato, ma certo non è una cosa limpida.

 

Per quanto poi riguarda l’altro membro del salvifico comitato, cioè l’ex governatore della Bank of England, cito quello che scrisse John Cochrane: “Una banca centrale non è un ente di beneficienza per ogni cosa, con l’autorità di sussidiare quelli che reputa meritevoli, di levare i finanziamenti a chi non le piace, e di obbligare banche e aziende a fare lo stesso. Una banca centrale si regge su una regola ferrea: è libera e indipendente se resta nel limite del suo mandato”.
C’è peraltro un modo di usare la tematica ESG che non incorre nelle contraddizioni del dare risposte parziali a problemi globali; che non si presta alle furbizie del greenwashing cioè farsi belli del rating lasciando le cose sostanzialmente immutate; che non viola il dovere fiduciario verso i risparmiatori; che non rasenta la manipolazione del mercato. Consiste nel prendere di ESG le iniziali, quelle dei settori ambientale, di comportamenti sociali, di struttura gestionale; in ciascuno andare alla caccia dei rischi potenziali e porvi anticipatamente rimedio. Era proprio inevitabile il disastro della BP nel golfo del Messico? Che cosa non ha funzionato nella catena gestionale della VW se è incappata nel Dieselgate? Conosceva così poco i suoi clienti la Nike da pensare che avrebbero ignorato e tollerato rapporti di lavoro così disumani? Questa “caccia agli errori” riduce il rischio d’impresa e quindi il costo per finanziarsi, aumenta la redditività e quindi il valore vero delle aziende che interpretano “alla lettera” la tematica ESG.

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