La centrale nucleare di Kernkraftwerk Isar vicino a Essenbach, in Germania (Foto di Lukas Barth/Getty Images) 

Cosa non torna nel discorso sul nucleare di Calenda e Bonino

Umberto Minopoli

Che cosa vuol dire, di grazia, finanziare la ricerca? È un escamotage: alludere al futuro per evitare di fare i conti con la realtà. L’Italia deve invece  decidere se e come rientrare nella realtà delle moderne centrali che in Europa e nel mondo sono oggi in costruzione

La on. Emma Bonino, nel parlare di nucleare, ha fatto ricorso ad una formula, che sta diventando scolastica per molti: sul nucleare occorre “finanziare la ricerca”. La stessa Bonino, espressione del resto di una tradizione politica fieramente avversa in passato all’energia nucleare e protagonista, in particolare, del referendum del 1987, lascia intendere, con tale espressione, un ripensamento e un’apertura a questa tecnologia. Pur confessando una benevola diversità dall’altro leader di Azione, Carlo Calenda, che sarebbe, a suo dire, “per l’atomo tout court”. Intendendo il ricorso non ad un futuro e indistinto nucleare di ricerca, ma a quello reale, attuale ed esistente.

 

Nel caso di Azione la cautela della Bonino, frutto di una evoluzione di posizioni, è compensata dalla netta e coraggiosa nettezza di Azione, che ha posto il nucleare tra le proposte energetiche del proprio programma elettorale. Vedremo, a giorni, i programmi delle altre forze politiche. Ad oggi, non potendo più limitarsi alla demonizzazione, al silenzio o alla rimozione del tema, molti politici fanno ricorso alla formula “aprire alla ricerca nucleare” come ad una sorta di escamotage: alludere a un nucleare futuro, indistinto e senza tempo, per evitare di fare i conti con la realtà, con quello esistente, in costruzione nel mondo (circa 54 centrali) e, soprattutto, indicato dall’Europa, con la decisione sulla tassonomia, come una scelta sostenibile per la decarbonizzazione.

 

Intendiamoci: parlare per l’Italia di finanziamenti alla ricerca nucleare significherebbe, comunque, un avanzamento: il referendum del 1987 cancellò il nucleare dalle fonti di produzione ma anche, scelta miope e incomprensibile da cancel culture, dal sistema della ricerca pubblica. Un’aberrazione per un paese che si intende industriale ed avanzato. Recuperare questo errore, dopo oltre 30 anni, non sarebbe certamente un male.

 

E’ bene chiarire, però, che sarebbe inutile. Nel senso che parlare di “ finanziare la ricerca” senza specificare a quali impianti,  tipologie di centrali e usi tecnologici del nucleare si  intende indirizzare i finanziamenti sarebbe un flatus vocis, una pura declamazione. L’Italia deve decidere se e come rientrare non in un’astratta ricerca nucleare, ma nella concreta e presente realtà delle centrali nucleari in costruzione oggi, nei prototipi e modelli di impianti di nuova concezione, di varia tipologia e tempi di sviluppo, su cui in Europa e nel mondo si è nella fase della realizzazione, non della ideazione o della pura ricerca.

  

Anzi, fosse solo per la ricerca, nonostante i referendum, l’Italia non è nemmeno messa male. Grazie all’industria, ai centri di ricerca pubblici e ad imprenditori privati dallo sguardo lungo, l’Italia non è affatto estranea alla ricerca nucleare. Penso ad Ansaldo ed Enea o alla NewCleo sui reattori di 4 generazione. Fare i conti con la realtà del nucleare di oggi, però, come ha più volte richiamato il ministro Cingolani, significa misurarsi non solo con le prospettive straordinarie della ricerca, ma con la realtà di un nuovo nucleare, fatto di concrete realizzazioni e modelli di reattori in sviluppo: le centrali di terza generazione, di larga potenza, che si stanno costruendo oggi; i reattori di potenza di piccola dimensione (small modular reactors), utilizzabili anche per usi non elettrici (produzione di idrogeno, desalinizzazione, cogenerazione, usi termici industriali). Parlare di “ricerca” senza riferirsi a queste due  realtà operative delle tecnologie nucleari esistenti, sarebbe tagliarsi fuori dalla realtà del nucleare dei prossimi 30 anni (dopo esserne stati fuori per altrettanti anni). Quale ricerca nucleare potremmo mai sviluppare con un tale buco alle spalle?

 

Il prossimo Parlamento, visto dai sondaggi dei voti e dalle dichiarazioni dei partiti, avrà forse una maggioranza disposta a riconsiderare la scelta del nucleare. Ma occorre rigore e serietà. Il nucleare che serve è quello che può cambiare il mix energetico italiano, non del prossimo secolo, ma già nel 2030 e 2040. Significa rientrare nel nucleare non dalla porta di servizio o da quella angusta e priva di significato di un’estratta e generica ricerca, ma da quella dei nucleare innovativo, esistente o in via di concretizzazione: le tecnologie nuove, applicabili subito, delle centrali di terza generazione; i piccoli reattori che entreranno sul mercato alla fine di questo decennio, ma di cui va programmata l’utilizzazione; i primi dimostratori e prototipi di impianti di quarta generazione e di fusione nucleare che giungeranno intorno al 2040.  

   
Saltare qualcuna di queste fasi o ignorarne gli sviluppi tecnologici effettivi e concreti, per un paese avanzato, ma con i nostri problemi energetici, significa mancare la transizione energetica e auto condannarsi alla povertà e al fallimento energetico.