La strategia della pensione di Meloni, Salvini e Berlusconi soffoca il futuro del paese

Luciano Capone

Promettono pensioni minime a 1.000 euro al mese e Quota 41: vuol dire aumentare di 2 punti di pil la spesa pensionistica più alta del mondo. È una politica incompatibile con la realtà e contraddittoria rispetto alle altre proposte su immigrazione, tasse e natalità

Che Italia immagina il centrodestra per i prossimi cinque anni e oltre? I programmi non sono stati ancora preparati nel dettaglio, ma già dai primi giorni di campagna elettorale appare chiaro che punterà molto sulle pensioni. Silvio Berlusconi ha promesso di alzare le minime a 1.000 euro al mese per 13 mensilità. La proposta è condivisa da Giorgia Meloni che alla recente conferenza programmatica di FdI a Milano ha indicato come “importantissimo” l’obiettivo di “alzare le pensioni minime a 1.000 euro al mese” per 6 milioni di pensionati sotto questa soglia. A questa proposta va poi aggiunta quella di Matteo Salvini, che da molto tempo punta – insieme ai sindacati – su Quota 41: pensionamento anticipato per chi ha 41 anni di contribuzione. Queste proposte costano un sacco di soldi.

 

Sul Foglio abbiamo quantificato in 20 miliardi il costo dell’aumento a 1.000 euro delle pensioni, ma si tratta di una previsione conservativa riferita ai soli pensionati al minimo. Sul sito di analisi economica Lavoce.info, Massimo Taddei calcola che, considerando tutte le prestazioni o anche i pensionati fino a due volte il minimo, l’esborso sale a 31-33 miliardi. Su Quota 41 le stime sono più precise, perché fatte l’anno scorso dall’Inps, e il costo è di 7,5 miliardi l’anno. In totale, le proposte di FdI, FI e Lega costano tra 28 e 40 miliardi l’anno. Ma quanto questo programma è compatibile con la realtà? E che paese sarebbe l’Italia con circa due punti di pil di spesa pensionistica in più?

 

Non si tratta di banale contabilità, pur sempre necessaria, delle spese e delle coperture. Ma di capire quanto è sostenibile una politica del genere, quali scelte di fondo comporta spendere per le pensioni anziché tagliare le tasse o investire su altro e, in sostanza, che tipo di società si immagina per il futuro. Per calare il suo programma nella realtà, e nel futuro, il centrodestra dovrebbe leggere il rapporto del Mef elaborato dalla Ragioneria dello Stato sulle “tendenze di medio-lungo periodo del sistema pensionistico”, aggiornato un mese fa, che è appunto un’analisi dei numeri e della sostenibilità del sistema. Partiamo da un punto fermo: l’Italia è il paese con la più alta spesa pensionistica al mondo, insieme alla Grecia, pari a circa il 16% del pil. Ma lo scenario che abbiamo di fronte è peggiore del previsto. Innanzitutto dal punto di vista demografico: rispetto alle precedenti proiezioni dell’Istat, la popolazione risulta più bassa di circa 1 milione di unità (per un insieme di fattori come maggiore mortalità da Covid, minore natalità e minore immigrazione). E poi c’è il cambiamento del quadro macroeconomico, con lo choc inflazionistico che attraverso il meccanismo di indicizzazione delle pensioni fa aumentare la spesa. Il combinato disposto di crisi demografica e fiammata inflazionistica (sperando sia temporanea), secondo le proiezioni della Ragioneria dello stato comporta “maggiori oneri che, nel periodo 2021-2070, ammontano in media a oltre 0,5 punti di pil”. Ciò vuol dire che la spesa in rapporto al pil torna a salire, dopo la recessione dovuta alla pandemia, e nel 2023 sarà pari al 16,2%.

 

Le proiezioni della Ragioneria dello stato mostrano una spesa in crescita fino al picco del 2040 (circa 17% del pil) ma tutto sommato sostenibile, solo perché si basa su ipotesi demografiche e macroeconomiche molto ottimistiche. O, comunque, su obiettivi impegnativi da raggiungere e molto lontani dalla situazione attuale:

i) incremento costante del tasso di fecondità dall’1,24 del 2020 fino all’1,55 nel 2070, che vuol dire invertire repentinamente un trend in costante discesa (nel 2010 si facevano 1,44 figli per donna). C’è da considerare che il calo è frenato dalle donne straniere che hanno un tasso di fecondità di 1,89 rispetto a quello delle donne italiane crollato a 1,17.

ii) flusso migratorio netto pari a 134 mila unità, che considerando le emigrazioni (che negli ultimi anni sono state circa 160 mila) vuol dire circa 300 mila nuovi immigrati ogni anno (secondo le proiezioni europee, il saldo migratorio dovrebbe essere di 87 mila unità in più ogni anno).

iii) aumento costante del tasso di attività nel mercato del lavoro soprattutto tra donne e over 60, riduzione della disoccupazione e aumento del tasso di occupazione.

iv) aumento della produttività all’1,5% (lo scorso decennio è stata negativa) e del pil reale al 2% nel prossimo decennio (dinamica che non si vede da decenni).

 

Ecco, tutti questi target nient’affatto semplici da raggiungere servono per mantenere stabile la spesa pensionistica in un paese in declino demografico e in forte invecchiamento (l’indice di dipendenza degli anziani passerà dal 36% del 2020 al 59% del 2040 e al 64% nel 2060). Come pensa il centrodestra di raggiungere questi obiettivi se aggiunge due punti di pil di spesa per pensioni? Come pensa di rendere compatibile questa spesa abnorme con la sua politica di chiusura all’immigrazione che, riducendo la popolazione e il tasso di fecondità, peggiorerebbe ulteriormente la sostenibilità del sistema? Come pensa di poter promuovere politiche per la natalità se mette altri 30-40 miliardi sulle pensioni? Con quali soldi pensa di ridurre la pressione fiscale su famiglie e imprese, e di far aumentare occupazione e produttività, se aumenta la spesa previdenziale più alta del mondo? Chi e con quale debito e pressione fiscale sulle spalle dovrà pagare le pensioni nell’Italia che il centrodestra ha in mente?

 

Ciò di cui non sembrano rendersi conto Meloni, Salvini e Berlusconi è che il loro piano sulle pensioni, oltre a essere una minaccia per la sostenibilità del sistema, è incompatibile con il loro stesso programma su tasse e immigrazione. È soprattutto incompatibile con la realtà attuale e il futuro del paese. E non si tratta di noiosa contabilità, che comunque non guasterebbe, ma dell’assenza di visione politica e senso pratico che chi si propone per guidare una grande democrazia ed economia occidentale come l’Italia dovrebbe avere.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali