Oltre il record
Perché il boom del lavoro è uno schiaffo a Landini & co.
Annunciavano da 700 mila a 1 milione di disoccupati in più dopo lo sblocco dei licenziamenti, ma dopo un anno l'occupazione è a livelli record. Dal no al Green pass allo sciopero generale fino all'implicito appoggio a Conte, la strategia di Cgil e Uil contro Draghi è stata sbagliata e controproducente
Non lo ricorda più nessuno, ma la cifra era terrificante: 700 mila. Era il numero di persone che da un giorno all’altro avrebbero perso il lavoro se fosse stato tolto il blocco dei licenziamenti: “La stima più accreditata è da brividi: 700 mila licenziamenti attesi dal 1° luglio”. Con questi argomenti la Cgil, e gli altri sindacati appresso, l’anno scorso scesero in piazza per chiedere al governo l’ulteriore proroga del divieto di licenziamento. Maurizio Landini prevedeva per l’autunno una “rottura sociale”, mentre il segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri, con dichiarazioni pirotecniche, diceva: “Non possiamo far scoppiare una bomba sociale di 1 milione di licenziamenti”.
Ce l’avevano con Mario Draghi, che aveva manifestato chiaramente l’intenzione di rimuovere quella misura d’emergenza adottata dall’Italia durante il Covid – unico paese in Europa – che avrebbe solo impedito alle aziende di riorganizzarsi nella fase di ripresa dopo un choc del genere. Che il blocco dei licenziamenti fosse stato superfluo, dato che c’era la cassa integrazione straordinaria come in tutti gli altri paesi europei, e a lungo andare controproducente perché ingessava l’economia in una fase di profonda trasformazione, era cosa nota a tutti. Anche al ministro dell’Economia del governo Conte II, Roberto Gualtieri, che aveva provato a superare la misura. Ma il blocco dei licenziamenti è facile da introdurre quando serve a poco e politicamente costoso da togliere quando diventa controproducente, perché fa apparire il governo come l’autore dei licenziamenti. Anche il ministro del Lavoro del governo Draghi, Andrea Orlando, tentò fino all’ultimo di prorogare la norma voluta dai sindacati. Quando la Commissione europea in alcune raccomandazioni all’Italia definì il blocco dei licenziamenti “ridondante e controproducente”, Orlando affermò che la Commissione non valutava “adeguatamente tutte le variabili del caso italiano” perché faceva “un’analisi più retrospettiva che sul futuro”.
Alla fine, nel governo passò la linea di Draghi – accusato di essere succube della Confindustria o giù di lì – e ora i numeri danno ragione al presidente del Consiglio. Gli ultimi dati dell’Istat, pubblicati due giorni fa, mostrano non solo che non è esplosa la “bomba sociale” da 700 mila o 1 milione di licenziamenti, ma che c’è stato un boom di assunzioni. A giugno 2022, esattamente un anno dopo la fine del blocco dei licenziamenti, il numero degli occupati è tornato a superare i 23 milioni (circa 400 mila in più rispetto a giugno 2021), soprattutto per effetto della crescita dei dipendenti a tempo indeterminato (+194 mila) oltre che di quelli con contratto a termine (+204 mila). Il risultato è che ora il numero complessivo di dipendenti ha raggiunto quota 18 milioni e 100 mila, “il valore più alto dal 1977, primo anno della serie storica”, precisa l’Istat. Con un tasso di occupazione che è salito al 60,1&, anch’esso valore record dal 1977.
Naturalmente, Draghi non aveva spinto per l’eliminazione del divieto di licenziamento perché gliel’avesse chiesto la Confindustria o suggerito al Commisione europea. Già prima di diventare premier, a dicembre 2020, in un report per il Gruppo dei Trenta sull’economia post Covid, l’ex presidente della Bce scrisse che la crisi avrebbe prodotto effetti permanenti e pertanto “i governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni necessarie o auspicabili e gli aggiustamenti nell’occupazione”. Si trattava, insomma, di non ostacolare quegli spostamenti tra aziende e settori che hanno consentito alle imprese di adattarsi e che ora, con i dati sulla crescita oltre le aspettative del consensus internazionale, fanno parlare di “resilienza” del sistema produttivo italiano.
Non è stato l’unico caso in cui Draghi, che pure ha cercato sempre un confronto e un dialogo con le parti sociali, è stato contrastato dai sindacati. Tralasciando i fenomeni da baraccone che, quando avviò le riaperture parlando di “rischio ragionato” lo definirono “il nostro Bolsonaro”, la Cgil contestò l’obbligo di Green pass sui luoghi di lavoro: Landini prima lo definì un “colpo di sole” della Confindustria, una proposta “inaccettabile”, e poi ne contestò la “logica sanzionatoria e punitiva verso il mondo del lavoro” che “rischia solo di aumentare le divisioni e allontanare l’obiettivo della vaccinazione di massa”. Anche in quel caso gli allarmi si rivelarono infondati e la polemica sbagliata: primo perché la campagna di vaccinazione è stata un successo (anche per merito del Green pass), secondo perché ha tutelato la salute dei lavoratori e ridotto l’incertezza per l’economia.
Dopo due battaglie sbagliate, Landini e Bombardieri hanno anche indetto uno sciopero generale contro la “insoddisfacente” manovra che ha tagliato le tasse. Infine, quando Conte ha avviato il processo di demolizione del governo usando vari pretesti, dal termovalorizzatore alla presunta “agenda sociale”, Landini, anziché spegnere la miccia, al termine dell’incontro con Draghi ha commentato “dal governo nessuna risposta concreta”. Due giorni dopo Draghi si è dimesso per la mancata fiducia del M5s. Dopo il successivo incontro di fine luglio, Landini ha invece commentato con soddisfazione che “il governo ha alcune prime risposte che vanno nella giusta direzione”.
Ma il governo ormai è finito e la Cgil dovrà proseguire il dialogo con un esecutivo che presumibilmente sarà di destra. Visto l’atteggiamento e le contestazioni riservate a Draghi, probabilmente Landini ritiene di ottenere risposte migliori da Giorgia Meloni.