Un agente di mercato alla borsa di New York mentre riflette (Getty Images)

l'intervento

Stabilità, deficit, Europa: le scelte di politica economica che contano

Giovanni Tria

Non solo il Pnrr. Servono parole chiare di fronte agli elettori, e sui grandi temi si dovrebbe trovare una convergenza anche tra forze politiche opposte

Nei manuali di macroeconomia dello scorso secolo, si usava spiegare la differenza tra le politiche di stabilizzazione economica propugnate dai governi progressisti rispetto a quelle di stampo conservatore nel modo seguente. Per contrastare una recessione i progressisti aumentano la spesa pubblica, poi, passata la congiuntura sfavorevole, cercano di chiudere il deficit aumentando le tasse. I conservatori di fronte a un rallentamento dell’economia riducono le tasse, poi cercano di rientrare dal deficit pubblico così creato riducendo la spesa. Il risultato della prima strategia è quello di aumentare progressivamente il ruolo dello stato, o del bilancio pubblico, nell’economia, mentre il risultato della seconda strategia è quello opposto di cercare di limitarne il ruolo.

 

Si trattava di una stilizzazione didattica di due visioni dell’economia anche se la verità storica del comportamento dei governi americani di vario segno non corrisponde esattamente a questa modellizzazione. D’altra parte, la differenza tra politiche di segno diverso va anche e soprattutto cercata nella composizione delle due grandezze che qui si mettono in rilievo. Ad esempio, conta la composizione della spesa pubblica: quale spesa pubblica si vuole aumentare e quale tagliare. Ugualmente conta la composizione delle entrate fiscali, quali aumentare e quali diminuire. Ma la stilizzazione dei due approcci alle politiche di stabilizzazione sopra riportata si presta ad alcune considerazioni interessanti.

 

Eravamo allora in un periodo in cui le politiche macroeconomiche erano tutte ancora sostanzialmente di stampo keynesiano, cioè di regolazione di breve periodo della domanda, anche se variamente interpretate. Ma nel confronto tra i due modelli di comportamento appare evidente che entrambi partivano dall’idea che dai deficit si dovesse rientrare e che nei programmi non si contemplava la prospettiva che l’economia si potesse reggere sul debito a oltranza. Nessuno diceva che il debito non conta. Se in Italia lo scontro politico tra un fronte che si autodefinisce progressista e un fronte che si autodefinisce conservatore tornasse a quei princìpi distintivi non sarebbe male, perché fino a oggi entrambi gli schieramenti si sono maggiormente esercitati sul primo modello, cioè più spesa e più tasse, ma con la variante della scarsa propensione a tener fede a quel che univa i due fronti teorici contrapposti, e cioè che dai deficit si rientra. 

 

Il tema non è affatto accademico perché attiene alla stabilità economica dell’Italia e soprattutto al modo di impostare i nostri rapporti con l’Europa, da cui dipende il futuro dell’economia nazionale, sempre meno separabile dall’andamento di quella europea. Di qui l’auspicio che ci si scontri sulla composizione della spesa e delle entrate, tema politico e legittimamente divisivo, ma si chiarisca quali siano gli obiettivi riguardanti deficit e debito. Questo per almeno due motivi. Il primo riguarda il messaggio ai mercati, dove gli investitori decidono se prestare all’Italia denaro e a quali condizioni. Il secondo, forse ancora più importante, sta nel fatto che da ciò dipende la forza negoziale in Europa per contrattare le modifiche delle regole fiscali e la stessa conduzione della politica monetaria, che seppur formalmente indipendente dai singoli governi, deve sempre tener conto delle politiche di bilancio, ricordando che essa fino a oggi è quella che ha garantito il finanziamento del nostro debito. 

 

La questione è particolarmente importante perché molti tabù sono caduti a questo riguardo. E proprio coloro che questi tabù sembravano combattere, pur contribuendo a rafforzarli spaventando i mercati, oggi devono saper gestire il nuovo contesto e le alleanze necessarie a ridefinire nuove regole e nuove politiche. 
Parliamo in particolare di due tabù.
Il primo riguarda la politica monetaria. Per tornare ai ricordi accademici, usavamo insegnare che la differenza tra entrate e spese pubbliche, cioè i deficit, si coprono o emettendo titoli di debito pubblico o con moneta, cioè facendo acquistare questi titoli dalla Banca centrale che emetteva nuova moneta. Entrambi i metodi avevano dei pro e dei contro e in ogni caso richiedevano cautela e moderazione.

 

Il secondo modo di finanziamento del deficit, cioè la sua cosiddetta monetizzazione, dallo scorso secolo è diventato un tabù in Italia con il cosiddetto divorzio fra il Tesoro e la Banca d’Italia, e poi in Europa per statuto della Bce. Credo sia sempre sbagliato privarsi di strumenti di policy, anche se c’è il pericolo che vengano usati male. Ma ora è evidente che di fatto questo tabù in Europa è stato fortemente incrinato, soprattutto nel corso della pandemia, anche se non formalmente. I titoli di debito pubblico emessi dai governi europei e acquistati dalla Bce devono oggi essere gestiti e si studiano meccanismi di ingegneria istituzionale, ancor prima che finanziaria, per vedere come toglierli dal bilancio della Bce perché creano qualche imbarazzo. Per ora la Bce li riacquista alla loro scadenza, ma si tratta di scelte politiche, certamente rivedibili in base anche alle condizioni della congiuntura economica. La caduta o l’incrinatura del tabù della monetizzazione non significa, in ogni caso, che il debito non conti perché teoricamente monetizzabile. Al contrario, da come si gestisce questa azione di politica monetaria di supporto ai bilanci pubblici dipende l’inflazione, che investe oggi tutti i paesi europei, mentre il debito, monetizzato o meno, è generato asimmetricamente. E’ quindi evidente che un problema esiste, ed è grande. 

 

Oggi la Bce è stretta tra l’obiettivo di frenare l’inflazione e quello di non bloccare la crescita. Le scelte riguardano i tassi di interesse, il rinnovo alla scadenza dei titoli di stato già acquistati e se appoggiare un nuovo eventuale programma di spese europee per fronteggiare la crisi energetica. Infine, riguardano come fronteggiare una possibile frammentazione del mercato monetario europeo, cioè l’ampliarsi degli spread tra i rendimenti dei diversi titoli pubblici nazionali a fronte del cambiamento di segno da espansiva a restrittiva della politica monetaria. Lo strumento adottato a quest’ultimo fine, il Tpi (Transmission Protection Instrument), è ancora non ben definito, ma certamente implica delle condizionalità che seppure annunciate in modo vago, non sono trascurabili per un paese sottoposto ad attacchi speculativi. Come sempre, è bene non avvicinarsi al confronto con queste condizionalità, perché esse hanno un impatto sulla fiducia dei mercati e sulla loro percezione del rischio-paese. 

 

Il secondo tabù caduto è quello delle regole fiscali europee, intoccabili fino a non molto tempo fa, a meno di essere tacciati di essere nemici dell’Europa. Il tabù lo hanno fatto cadere definitivamente Draghi e Macron congiuntamente quando, in un articolo pubblicato sul Financial Times, hanno dichiarato che queste regole sono sbagliate e, con uno sguardo retrospettivo, hanno fatto male all’economia europea. Ciò non vuol dire “liberi tutti” di accumulare debito, perché non lo siamo neppure oggi pur in presenza di una sospensione di queste regole fino alla fine del prossimo anno. Significa al contrario che il prossimo governo deve sedersi al tavolo del negoziato europeo e costruire le alleanze per riforme utili all’Italia. Ma, come insegnano nei corsi per lobbisti, l’interesse particolare si difende se si mostra che coincide con quello generale, cioè con la crescita dell’economia europea. Ciò che è in gioco non è infatti la momentanea scelta di una politica di bilancio più o meno espansiva, ma il nuovo assetto politico europeo.

 

Oggi la governance economica europea è costruita in modo zoppo. Da una parte un’autorità monetaria e, quindi, una politica monetaria europea, dall’altra l’assenza di un’autorità di bilancio europea, ma solo un sistema di sorveglianza delle politiche di bilancio nazionali dettato dalla sfiducia reciproca tra i paesi membri. Ciò chiaramente non può funzionare e non ha funzionato. Lo stesso Draghi, dalla guida della Bce lo ha sempre messo in rilievo. Ora il convitato di pietra dell’assetto europeo è la mancanza di un’autorità fiscale europea in grado di gestire una politica di bilancio con uno sguardo agli interessi complessivi di un’economia europea ormai fortemente integrata al suo interno. Ciò non confligge con la maggiore flessibilità, e corrispondente responsabilità, dei bilanci nazionali. Il percorso non è facile ma forse sarebbe bene che le forze politiche dichiarino la loro visione, anche se essa deve poi confrontarsi con quella degli altri paesi membri. L’implicazione delle scelte su questo punto è una Europa più integrata e più equilibrata tra stati nazionali e governance europea. Il rischio è di rimanere intrappolati, come di fatto voluto dai paesi del nord Europa nemici del cambiamento, a metà del guado tra Europa federale e confederale, inseguendo visioni ideologiche ed astratte e così perpetuando un assetto che certamente non ha fatto bene all’Italia e neanche all’Europa.

 

Vi sono almeno altri due punti cruciali sui quali sarebbe bene che gli schieramenti politici si pronunciassero. Il primo riguarda l’approccio europeo alla disciplina della concorrenza. Aumentare la concorrenza nei mercati è sempre un bene fino a quando ciò significa maggiore efficienza e trasmissione di questa maggiore efficienza ai cittadini, riducendo, a parità di qualità, il prezzo dei beni e servizi. Ma vi è anche il tema della competizione internazionale ed è necessario chiedersi in quale misura le norme sugli “aiuti di stato”, studiate in Europa per unificare il mercato interno europeo, siano oggi adeguate a sostenere la competizione dell’Europa al di fuori dell’Europa nei mercati globali in settori strategici per l’economia e la sicurezza europea. Sarebbe utile sapere qual è la posizione che le forze politiche che si propongono all’elettorato difendono a questo proposito, se cioè correggere queste norme o slittare, come alternativa, verso forme di protezionismo. 

 

Ciò ci conduce alla madre dei temi che condizioneranno il futuro dell’Italia, dell’Europa e del mondo occidentale nelle cui alleanze siamo incardinati. Ciò non riguarda le dichiarazioni di europeismo o atlantismo. Vogliamo credere che queste collocazioni internazionali dell’Italia non siano in discussione. Il tema è cosa deve fare la nostra parte, cioè il mondo occidentale, nella ricerca di una nuova governance dell’economia globale. Il tema, in altri termini, è se dobbiamo cercare con ogni mezzo un nuovo accordo globale tra tutte le grandi economie, nell’interesse sia a breve sia prospettico di tutti, o se dobbiamo consentire lo slittamento verso una frammentazione dei mercati che, come denunciato anche dal Fondo monetario internazionale, implicherebbe minore crescita, maggiore inflazione e, soprattutto, un mondo più pericoloso e conflittuale.

 

Al contrario, è necessaria un’azione internazionale tesa a ricostituire i canali di approvvigionamento lungo le catene produttive globali e stabilire regole commerciali condivise. La spinta alla deglobalizzazione è difficile e impervia e può portare a guai seri, non è terreno per sperimentazioni di apprendisti stregoni. E se si vuole influire nella definizione delle politiche che riguardano la geo-economia è necessario avere una forte credibilità e posizioni molto chiare in campo internazionale. 
Si tratta di una lista molto ristretta di temi che tuttavia sono tutti collegati tra loro. Parlare in modo chiaro su questi aspetti è importante da parte delle forze politiche che oggi si confrontano davanti agli elettori, ma sarebbe anche auspicabile che su questi temi si possa manifestare una convergenza tra le forze politiche anche contrapposte, perché riguardano l’interesse nazionale e il rafforzamento della posizione italiana nei mercati e nei negoziati internazionali, senza dar spazio, da una parte e dall’altra, a voci di fantasisti della politica economica. 

 

Sarebbe anche utile che le parti politiche si riconoscessero reciprocamente questo impegno, invece di tentare di delegittimarsi di fronte al mondo, con sicuro danno nazionale e poco vantaggio elettorale. C’è spazio abbondante per distinguersi e scontrarsi su altri temi, da quelli riguardanti il conflitto distributivo interno, che con l’inflazione attuale è il tema del giorno, alle strategie di crescita che implicano il disegno delle riforme necessarie, dei programmi d’investimento pubblici e del sostegno attento agli investimenti privati. In parte sono temi coperti dal Pnrr, che è da attuare e forse attualizzare, ma c’è molto di più. 

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