Dalla scalata a Montedison all'alleanza Thales-Alenia-Telespazio. La Francia, il nostro miglior nemico
Spesso avversarie, raramente alleate, ora Francia e Italia possono trovare un nuovo modello per sconfiggere i fantasmi del nazionalismo industriale
Il trattato del Quirinale? “Abbiamo dato una delega in bianco alla Francia”. E ancora: “Il Pd svende pezzi del nostro paese”. Di più: “C’è un patto segreto sulla testa del Parlamento”. Giorgia Meloni ha picchiato duro fin dall’autunno scorso e le elezioni rilanciano la campagna di Francia che la leader di Fratelli d’Italia ha raccolto dalle mani della Lega. “Siamo diventati una colonia francese”: Umberto Bossi scagliò il suo anatema quando nel 2011 Parmalat fu venduta a Lactalis. Tutti dimenticano che ciò avvenne per non farla finire in mano alla Granarolo delle cooperative rosse. Qualcosa del genere era già accaduto nel 2005 quando Bnl passò a Bnp Paribas pur di sfuggire alla “finanza rossa” cioè Unipol e Montepaschi. Le principali operazioni franco-italiane che hanno segnato una svolta nel potere economico-finanziario sono avvenute grazie alle divisioni interne al capitalismo nazionale. Sono gli italiani a chiamare i francesi per scalare la Montedison e sempre gli italiani aprono le porte a Vincent Bolloré. Ha raccontato Cesare Geronzi, allora presidente della Banca di Roma e vicepresidente di Mediobanca, di aver ricevuto un giorno una telefonata da Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, che lo invitava nel suo ufficio per fargli conoscere un amico, senza farne il nome. Il banchiere romano si trovò di fronte al finanziere bretone che, diritto allo scopo, gli annunciava di essere diventato il primo azionista della banca fondata da Enrico Cuccia. Davvero un bell’amico, che pochi anni dopo ha cercato di scalare Mediaset e Telecom Italia. E’ quasi automatico pensare a come cominciarono le guerre d’Italia con Carlo VIII invocato nel 1494 da Ludovico Sforza detto il Moro, reggente di Milano, per sconfiggere il cognato Alfonso II re di Napoli.
La percezione nei due paesi è diversa, anzi opposta. I francesi sono convinti che gli italiani si siano impossessati della Psa (Peuget-Citroën-Opel) e della Essilor. Principale azionista del gruppo Stellantis nato dalla fusione con Fiat Chrysler è la Exor guidata da John Elkann. Lo stesso vale per Essilux, frutto del matrimonio con Luxottica: gli eredi di Leonardo Del Vecchio posseggono il pacchetto di maggioranza e la gestione è in mano a Francesco Milleri. In Italia, al contrario, c’è la convinzione che sia gli eredi di Agnelli sia quelli di Del Vecchio abbiano venduto ai francesi, seguendo le orme di Bulgari, Loro Piana, Fendi e molti altri. E’ una storia annosa e anche un po’ noiosa. Si sono sempre beccati “i due grandi popoli latini”, come li chiamava Charles de Gaulle il quale, però, si mise di traverso quando nel fatidico 1968 Gianni Agnelli comprò la Citroën da François Michelin. Ciò non impedì all’Avvocato di diventare negli anni 80 il primo imprenditore estero in Francia. Le cose sono via via peggiorate a cavallo del nuovo millennio. Da allora, gli investimenti diretti francesi in Italia si fanno sempre più ampi e hanno un forte impatto politico-mediatico. Prende corpo lo spettro della “colonizzazione” ignorando i rapporti eccellenti che si erano stabiliti in settori strategici di primaria importanza: lo spazio, la difesa, dai razzi all’elettronica, la produzione di microprocessori con la STMicroelectronics esempio virtuoso di matrimonio statale tra Parigi e Roma. Come mai questa conflittualità così aspra e così mal gestita? Facciamo prima una fotografia della situazione, grazie al rapporto elaborato da Sciences Po e dalla Luiss, per conto dello Studio Ambrosetti. I dati sono del 2019, ma i due anni di pandemia non hanno cambiato molto.
La bilancia commerciale tra i due paesi risulta strutturalmente a favore dell’Italia e negativa per la Francia per un valore superiore a 11,7 miliardi di euro. Avviene invece il contrario per gli investimenti diretti. Quelli italiani in Francia sono inferiori a quelli francesi in Italia: 25 miliardi di euro contro 66,6 miliardi. Non è stato sempre così. Fino al 2005 le acquisizioni italiane risultavano maggiori in termini di valore. Le aziende e i gruppi francesi hanno aumentato l’attivismo con l’acquisizione di brand del lusso come Gucci (già nel 1999), Brioni, Pomellato, Bottega Veneta, Fendi, Bulgari, Loro Piana e Repossi. L’accelerazione ha riguardato anche la finanza: oltre Bnl-Bnp Paribas, c’è Cariparma ceduta al Crédit Agricole e Pioneer ad Amundi. A questo s’aggiunge il francese (con doppia cittadinanza) Philippe Donnet alla guida delle Assicurazioni Generali già presiedute per ben due volte da Antoine Bernheim, padrino di Bolloré che nel 2001 entra in Mediobanca per sostenerlo (e poi lo rinnegherà). Anche Unicredit è stata gestita per cinque anni da un manager francese, Jean Pierre Mustier, con esiti non proprio brillanti (il titolo è sceso da 10 a 8 euro). Il tricolore transalpino è stato issato sulla grande distribuzione: Carrefour ha acquisito GS, mentre è andata male a Auchan. Quando Italo ha rotto il monopolio delle Fs nell’alta velocità, si disse che era il cavallo di Troia dei francesi i quali invadevano anche le strade ferrate. E’ finita che le Fs viaggiano anche oltralpe. Una reciprocità non facile da accettare, ma alla fine è andata. Non è mai passata invece l’alleanza tra Alitalia e Air France, rimasta in bilico per un decennio, rilanciata da Romano Prodi, e affossata da Berlusconi nella campagna elettorale del 2008.
Le filiali di aziende francesi in Italia sono quasi 2.000 per un totale di oltre 245.000 posti di lavoro creati (un contributo secondo solo al numero di occupati creati da filiali statunitensi in Italia: meno di 287.000). La presenza italiana, pur inferiore, non è marginale: oltre 1.700 aziende francesi sono controllate da un investitore italiano, per un totale di 63.000 posti di lavoro. Prima che arrivasse la pandemia c’è stata una accelerazione. Atlantia ha acquisito la gestione dell’aeroporto di Nizza (975 milioni di euro), Lavazza ha comprato Cart Noire (700 milioni), Campari ha rilevato Grand Marnier (683 milioni di euro), Erg Renew 11 parchi eolici in Francia (135 milioni), Ansaldo Energia ha preso la divisione turbine di Alstom Sa (120 milioni), Fila ha Canson (85 milioni), Reno De Medici ha Cascades (18 milioni), San Giorgio del Porto e Costa Crociere detengono il 33 per cento nei Chantier Naval de Marseille (10 milioni) e Iren Ambiente possiede Derichebourg Environnement (6,1 milioni). Non sono operazioni da poco né di secondo piano. C’è poi l’acquisizione da parte di Fincantieri dei Chantiers de l’Atlantique a Saint-Nazaire, sull’estuario della Loira. Ci si è messo di mezzo l’antitrust europeo, la cui sentenza negativa è stata accolta con sollievo dall’establishment politico francese, compreso Emmanuel Macron, che non ha mai voluto mollare il suo “campioncino nazionale”.
Il catalogo di chi controlla chi, non dice molto se non si entra nel merito. A usare la finanza francese come baluardo contro l’invadenza della politica italiana è stato senza dubbio Enrico Cuccia, grazie al suo rapporto strettissimo con André Meyer il patron della Lazard, boutique finanziaria di gran lusso, piccola, ma potente anche negli Stati Uniti. E’ qui che il fondatore della Mediobanca nascose il controllo delle Assicurazioni Generali il salvadanaio degli italiani sul quale in molti hanno sempre cercato di mettere le mani. A realizzare il gioco di scatole cinesi (in Francia si dice poulies bretonnes, carrucole bretoni) è stato Antoine Bernheim, socio gerente della Lazard fino al 2005 quando la banca d’affari è diventata tutta americana. Fu lui a escogitare nel 1973 un scatola lussemburghese chiamata Euralux della quale nessuno sapeva nulla e che custodiva un pacchetto del 4,73 per cento decisivo per controllare le Generali. Mediobanca e Fiat si ritrovano protagoniste nel 2001 dell’operazione che incrina fortemente i rapporti italo-francesi: la scalata alla Montedison da parte di Edf. La società elettrica controllata dallo stato francese arriva a possedere il 20 per cento e può contare sul 10 per cento del finanziere franco-polacco Romain Zaleski. Il governo di centrosinistra guidato da Giuliano Amato blocca i diritti di voto di Edf al 2 per cento. Si crea un vero incidente diplomatico con il presidente francese Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin. Scendono in campo anche la Fiat guidata da Paolo Fresco, la Banca di Roma, Banca Intesa e Sanpaolo di Torino, insieme a Edf creano un veicolo finanziario, Italenergia, che acquisisce Montedison e la consociata Edison, cede tutte le attività non energetiche e la nuova società nel 2005 passa sotto il controllo di Edf. La “guerra elettrica” lascia il segno tanto che nel 2006, quando l’Enel cerca di acquisire la Compagnie de Suez, viene stoppata da Parigi. Molte delle imprese in mani francesi sono oggi solide realtà in Italia. Edison è il primo gruppo energetico privato e può avere un ruolo importante perché non dipende dal gas russo, possiede la maggior parte delle centrali idriche italiane ed è ben posizionato sulle fonti alternative. Parmalat ha acquistato anche Nuova Castelli, società specializzata nei formaggi Dop italiani con 13 stabilimenti. Lactalis della famiglia Besnier raggruppa Galbani, Invernizzi, Locatelli, Cademartori. Altri archi prestigiosi sono stati rilanciati. Si pensi a Fendi, passata nel 2001 alla Lvmh di Bernard Arnault che l’ha fatto diventare una realtà anche culturale, con il palazzo della Civiltà e del Lavoro all’Eur. O al ruolo del grande avversario François Pinault con Gucci, Bottega Veneta, palazzo Grassi a Venezia. Bisogna guardare insomma al bicchiere mezzo pieno.
“L’alleanza spaziale Thales-Alenia-Telespazio appare come uno dei rari esempi d’una integrazione bilaterale in un settore di alta tecnologia”, scrive Jean-Pierre Darnis nel suo libro “Les relations entre la France et l’Italie” che andrebbe tradotto in italiano e diffuso tra Montecitorio e Palazzo Madama. Nazionalismo economico e patriottismo industriale sono locuzioni diffuse di qua e di là dalle Alpi. Ma nell’aero-spazio e in alcuni settori della difesa sono nati veri campioni europei con l’apporto fondamentale franco-italiano. Roma è rimasta fuori per sua scelta da Airbus, ma ne resta collegata grazie all’Atr (50 per cento Airbus e 50 per cento Leonardo) con base a Tolosa. “La relazione bilaterale nei settori tecnologici – scrive Darnis – s’oppone al senso comune e mostra una sociologia originale, un tessuto di cooperazione tra personale molto qualificato, tecnici, ingegneri, ricercatori che creano un habitus specifico, molto ricco a livello bilaterale”. Ci sono ampie differenze anche nella governance. La Francia che adotta una gestione verticistica, dal presidente e direttore generale la catena di comando scende giù lungo la piramide. L’Italia invece, anche grazie alla “scuola dell’Iri”, segue una struttura orizzontale che lascia spazio al decentramento e all’iniziativa delle singole imprese all’interno del gruppo. Il capo d’azienda è un amministratore non un “patron”. Secondo Darnis il confronto tra questi due modelli può essere molto fruttuoso, purché non prevalga un atteggiamento autoreferenziale. Sarà interessante vedere come verrà gestita Stellantis da un manager forte portoghese, Carlos Tavares, con un azionariato nient’affatto assente, da Exor con il 14,4 per cento alla stessa famiglia Peugeot che possiede una quota fino all’8,5 per cento, seguita dallo stato francese con il 6,2 per cento. Il fronte sovranista ha proposto che anche il governo di Roma diventi azionista per controbilanciare Parigi, un’idea che potrebbe tornare in ballo dopo le elezioni sopratutto se il crollo della produzione automobilistica metterà in pericolo le fabbriche italiane. Quanto a Essilux, sembra prevalere in entrambe le parti la volontà di imporre un uomo solo al comando. Ma è presto per capirlo, l’improvvisa scomparsa di un imprenditore carismatico come Leonardo Del Vecchio è troppo recente. E la politica?
Nell’alleanza dello spazio e delle tecnologie, i governi danno la loro impronta, ovviamente, ma “le società sono gli attori centrali della propria strategia”, scrive Darnis. Questo meccanismo virtuoso può essere applicato anche in altri campi? Pensiamo alle telecomunicazioni e alla sorte di Tim. O ai media oggi più che mai diventati strategici. C’è una forte spinta ad allargare il più possibile il campo di utilizzo del golden power. Il 2 agosto il governo ha varato il nuovo regolamento. I poteri speciali si applicano ai settori “tradizionali” (difesa, energia, trasporti, telecomunicazioni) e a nuovi settori strategici (in particolare tecnologie 5G, salute, agroalimentare, finanziario, creditizio e assicurativo) e alle operazioni concluse da soggetti europei. L’anno scorso ci sono state 496 notifiche, il governo è intervenuto solo 26 volte. Il golden power può diventare lo strumento per un nuovo protezionismo o per nazionalizzazioni striscianti. Il modello virtuoso nell’aerospaziale franco-italiano, invece, insegna che la politica e l’industria debbono viaggiare fianco a fianco senza pestarsi i piedi. Di qui al 25 settembre in Italia non è cosa. E dopo?