Il problema dei salari italiani “bassi” è che non sono così bassi
La contrattazione collettiva è riuscita in questi anni a garantire i lavoratori di bassa professionalità e delle piccole imprese. Al costo però di appiattire al massimo i livelli retributivi. Un sistema troppo propenso all'egualitarismo e con scarso interesse per la produttività
E’ diventato ormai un luogo comune il racconto politico-sindacale di una società italiana che progressivamente si impoverisce e al suo interno aumentano le diseguaglianze di reddito, a causa soprattutto di salari troppo bassi. A dire il vero si tratta di un’argomentazione piuttosto recente, perché fino a poco tempo fa la narrazione era che con lo Statuto dei lavoratori e i contratti collettivi nazionali (Ccnl) la tutela fosse eccellente. E invece per l’Ocse, l’Italia è l’unico paese dove negli ultimi 30 anni i salari hanno perso il 2,9 per cento in termini reali. Ma chi ci ha perso?
Secondo i dati Eurostat, la paga oraria media lorda, espressa a parità di potere d’acquisto, nel 2021 in Italia è stata di 15,55 € contro € 16,9 dell’area euro, 19,66 della Germania e 18,01 della Francia, mentre la retribuzione mensile lorda è stata di 2.520 € in Italia, 2.825 nell’area euro, 3.349 in Germania, di 2.895 in Francia. Quella annua è stata di 34.792 € in Italia, 38.559 nell’area euro, 44.933 in Germania e di 37.956 in Francia.
Secondo Job Pricing, che prende in considerazione i dati Ocse, nel 2020 i salari italiani erano al 25esimo posto su 36 paesi, pari all’80 per cento della retribuzione media Ocse, con differenze tra la retribuzione contrattuale e quella di fatto piuttosto bassa, pari al 2,3 per cento. I salari sono dunque mediamente bassi per il fatto che la differenza tra salari alti e bassi è tra le più ridotte in Europa: i salari “bassi”, ossia quelli inferiori ai due terzi del salario mediano, sono inferiori alla media totale solo del 3,7 per cento, mentre quelli “alti”, ossia superiori alla mediana di una volta e mezzo, hanno importi inferiori del 19 per cento, i più bassi dopo la Germania (18,7 per cento).
Il grosso dei salari si distribuisce quindi abbastanza uniformemente in una fascia centrale medio-bassa anche perché è modesta la differenza di retribuzione per livello d’istruzione. Tra i livelli più bassi (primaria e/o secondaria inferiore) e più alti (terziaria e superiore) in Italia è tra i 27.806 € euro annui e i 44.104 euro; in Germania è tra i 27.005 e i 68.144 euro; in Francia di 28.115 e 47.696; nell’area euro è tra i 25.518 e 51.200 euro. Ancora una volta troviamo che le retribuzioni “basse” sono più alte della media europea, ma quelle “alte” sono più basse. Ecco spiegato perché i salari sono mediamente bassi e hanno perso potere d’acquisto in 30 anni, soprattutto per colpa di quelli “alti”, visto che quelli più bassi hanno una buona performance. Anche la distribuzione per classi di età delle retribuzioni italiane mostra una curva più schiacciata rispetto a quelle di Germania e Francia. La crescita, tra i salari di chi ha meno di 30 anni e di chi ne ha più di 50, è del 52 per cento da noi, del 58 per cento in Germania e 59 per cento in Francia. Mentre per quanto concerne il gender gap ci collochiamo a metà classifica.
E’ importante anche esaminare come cambia il salario a seconda del settore produttivo: nella comparazione con i dati Eurostat, la differenza tra la retribuzione nell’industria di processo (normalmente la più alta esclusi i servizi finanziari) e i servizi, esclusa la P.a., è del 23,5 per cento in Germania, del 13 per cento in Francia, solo del 7 per cento in Italia e del 14,5 per cento nell’area euro. L’appiattimento del dato italiano è dovuto a un livello relativamente alto della retribuzione nei servizi (soltanto -8,7 per cento rispetto all’area euro, -7,5 per cento rispetto alla Francia, -24 per cento rispetto alla Germania) e piuttosto basso per l’industria di processo (-17 per cento con l’area euro, meno 43,8 per cento con la Germania, -14,7 per cento con la Francia).
Tutto questo è il risultato qualitativo e quantitativo della superata filosofia dei contratti nazionali che sono troppi. Sono 900 quelli depositati al Cnel anche se in uso sono meno della metà (la gran parte sottoscritti da Cgil, Cisl, Uil) e coprono circa il 97 per cento dei lavoratori. Scarsissima quindi l’influenza, anche statistica, dei “contratti pirata” e dei senza contratto; come dimostra Adapt, basta prendere in considerazione gli Uniemens presentati all’Inps nei quali va riportato il codice del Ccnl applicato: i lavoratori del settore privato sono 13.643.659, e soltanto in 729.544 casi l’Uniemens non indica il Ccnl (dati 2021) il che significa, probabilmente esagerando, che tra i 500 e 700 mila dipendenti lavorino senza un Ccnl tra il 3 e il 5 per cento mentre la copertura contrattuale tutela almeno 12.900.000 dipendenti privati, più 3.200.000 dipendenti pubblici. Restano fuori 950.000 lavoratori dell’agricoltura e circa 800.000 lavoratori domestici che hanno trattamenti contrattuali di impianto molto diverso dai Ccnl tradizionali, e spesso applicati meno rigorosamente.
In conclusione, la contrattazione collettiva in Italia è largamente applicata e i dati descrivono bene gli obiettivi sindacali: garantire i lavoratori di bassa professionalità e delle piccole imprese appiattendo al massimo i livelli retributivi, sostenendo la fascia inferiore che risulta mediamente più alta della media europea mentre quella alta è meno tutelata, sicché i salari medi contrattuali sono più bassi rispetto ai livelli europei, poco diversificati per professione, titolo di studio, età e comparto. Insomma un sistema contrattuale vetusto, accentrato, imperniato sulle fasce più deboli, troppo propenso all’egualitarismo, con scarso interesse per la produttività e i contratti di secondo livello che esalterebbero le specificità e la produttività delle aziende. Un sistema sempre alla ricerca di sgravi fiscali e bonus, ma solo per i lavoratori di fascia bassa e medio-bassa; e infatti il 60 per cento dei lavoratori non paga nulla di Irpef (per questo astutamente i sindacati chiedono gli sgravi contributivi) mentre i 5 milioni di contribuenti che dichiarano da 35 mila euro di reddito in su, ignorati dai sindacati, pagano il 60 per cento di tutte le imposte, non hanno bonus e agevolazioni e non sono difesi da nessuno. Prevale l’egualitarismo sul merito e i diritti sui doveri. Poi non ci possiamo lamentare se il paese è il fanalino di coda in tutte le classifiche positive e ed è primo per evasione fiscale, malavita, gioco d’azzardo e così via.