Così l'Italia ha aumentato i finanziamenti a Putin più di tutti in Europa. Il caso Priolo
Il governo ha dimezzato la dipendenza dal gas russo, ma l'import di greggio è esploso (+112%) mentre nel resto d'Europa si riduceva. Tutto a causa di una raffineria della Lukoil rimasta impigliata nelle sanzioni. Mancano tre mesi all'embargo e nessuno ha una soluzione
La morte dai contorni misteriosi di Ravil Maganov, presidente del cda di Lukoil, dopo essere volato giù dalla finestra di un ospedale a Mosca dove era ricoverato, è l’occasione per l’Italia per concentrarsi su una questione che la lega al colosso petrolifero russo: l’Isab di Priolo Gargallo. In questi mesi il presidente del Consiglio Mario Draghi ha giustamente rivendicato di aver dimezzato la dipendenza dal gas russo, ma non ha parlato del fatto che nel frattempo è raddoppiata la dipendenza dal petrolio russo.
Secondo i dati dell’Unem – l’ex Unione petrolifera – nei primi sei mesi del 2022 l’Italia ha aumentato le importazioni di greggio russo del 112%, facendo della Russia il primo fornitore di petrolio con il 18% (nel 2021 era il quarto fornitore con il 10%). Il boom dell’import è dovuto alla raffineria di Priolo, in Sicilia, e alle conseguenze paradossali delle sanzioni. Questo impianto di raffinazione, gassificazione e cogenerazione di energia elettrica, di proprietà della società svizzera Litasco a sua volta controllata da Lukoil, dopo l’invasione dell’Ucraina si è trovata a operare solo con petrolio russo. Prima non era così. L’Isab di Priolo aveva diversi fornitori e utilizzava il 20-30% di greggio degli Urali, che dopo la guerra è diventato il 100%. Tutto per effetto di conseguenze inintenzionali delle sanzioni alla Russia. Sebbene i vari pacchetti di sanzioni dell’Unione europea non colpiscano il settore energetico e Lukoil non sia un soggetto sanzionato, le banche hanno tagliato le linee di credito all’Isab per “ovecompliance”. Cioè per evitare qualsiasi problema ed essere sicuri di non ricadere in sanzioni secondarie o problemi burocratici. Di conseguenza la raffineria si è trovata costretta a dover fare affidamento esclusivamente sulle forniture della società madre russa. Pertanto, in questo caso, le sanzioni hanno prodotto un risultato opposto a quello voluto: un incremento delle importazioni dalla Russia.
Secondo i dati di Bloomberg, che monitora le consegne di petrolio via nave, in Italia le importazioni dalla Russia ad agosto sono arrivate a 530 mila barili di petrolio al giorno, quasi il quintuplo rispetto ai livelli ante guerra (110 mila barili a febbraio). Il dato è impressionante, perché è quasi il doppio rispetto alle importazioni di Olanda, Polonia, Lituania, Francia, Finlandia, Germania, Svezia e Regno Unito messi insieme. Mentre l’export russo via nave verso il nord Europa si è abbattuto del 70% (e si è azzerato in paesi come Francia, Germania e Regno Unito), quello verso l’Italia è esploso con un incremento di acquisti secondo solo all’India e superiore a paesi che non hanno messo sanzioni come Cina e Turchia. L’Italia in sostanza è stata in Occidente il principale finanziatore della guerra di Putin, seppur involontariamente, ma comunque a causa di una situazione che si è protratta per diversi mesi senza porvi rimedio.
Ma il problema non potrà essere ignorato a lungo. Il 5 dicembre, infatti, entrerà in vigore l’embargo al petrolio russo importato via nave, inserito nel sesto pacchetto di sanzioni europee. Ciò vuol dire che se con le prime sanzioni l’Isab di Priolo si è trovata costretta da un giorno all’altro a importare solo greggio russo, con le ultime sanzioni si troverà obbligata a doverne completamente fare a meno. Il problema, che ora è di coerenza rispetto allo spirito della sanzioni contro la Russia, rischia di trasformarsi in industriale-occupazionale: la raffineria dà infatti lavoro a 3 mila persone, tra addetti diretti e indotto, produce energia elettrica per la Sicilia e ha un’importante capacità di raffinazione in un mercato che ne è assetato (e lo si vede dai prezzi).
Qual è la soluzione? Al momento non è all’orizzonte e le elezioni anticipate sicuramente non stanno aiutando. Nel dl Aiuti il governo aveva istituito un “tavolo di coordinamento” interministeriale tra Mise, Mite, Mef e l’azienda per trovare una via d’uscita. Durante l’incontro, che si è tenuto il 2 agosto, i rappresentanti di Isab hanno manifestato “preoccupazione”, evidenziando che la soluzione ideale sarebbe una deroga all’embargo per un anno (ma si tratterebbe di un suicidio politico internazionale per l’Italia), in alternativa una linea di credito garantita da Sace per evitare i problemi con le banche (ma il Mef dice che non si può fare e il ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti che lo stato non può garantire al posto dell’azienda). Non è possibile usare neppure strumenti per aziende in crisi, perché mai come in questo periodo le raffinerie lavorano e con margini elevati. Una via d’uscita, non si sa quanto risolutiva, potrebbe essere l’emissione da parte del governo di una “comfort letter” che specifichi che l’Isab di Priolo non è soggetta a sanzioni, in modo da rassicurare le banche ed evitare condotte di overcompliance (un precedente riguarda una lettera analoga usata per la Tamoil nel 2011, quando le sanzioni riguardavano la Libia di Gheddafi).
Una soluzione, che eliminerebbe il problema alla radice, sarebbe un intervento sull’assetto proprietario. Non necessariamente la “nazionalizzazione”, ipotesi ventilata e subito smentita dal governo, ma una cessione dello stabilimento a un operatore europeo, o comunque non russo. La società, però, al momento non ha ricevuto alcuna proposta né per la vendita né per l’affitto di azienda. Dalla riunione del 2 agosto al Mise è passato un mese, senza che nulla di nuovo sia accaduto, probabilmente anche perché tutti i partiti e mezzo governo sono distratti dalla campagna elettorale.
Ma mancano solo tre mesi all’embargo e, a maggior ragione dopo l’improvviso volo da una finestra di ospedale del presidente di Lukoil, la situazione si fa sempre più complicata. Se l’Italia non trova un rimedio in tempi rapidi, l’Isab di Priolo può diventare oltre al gas un’altra leva attraverso cui Putin tenterà di rompere il fronte occidentale e separare le opinioni pubbliche dalle scelte dei governi sulle sanzioni.