Ma davvero il Pnrr non è modificabile? Parliamone
Qualche spazio di manovra c’è, ma per cambiare occorre avere consenso in Europa e rispettare i tempi. E solo gli europeisti possono farcela
Il Pnrr è veramente immodificabile, come avvertono alcuni, o può in realtà essere cambiato, come sostiene Giorgia Meloni? Da un lato vi è chi evoca addirittura il fantasma di Tsipras, che si fece eleggere promettendo di modificare il piano di macro-aggiustamento economico trascinando la Grecia nel caos, e chi pensa, invece, che tutti i contratti possono essere rinegoziati al mutare delle circostanze. La campagna elettorale sembra oscillare tra questi due estremi. A ben vedere, qualche spazio di manovra c’è. La situazione macroeconomica è tanto cambiata nel giro degli ultimi mesi – con l’inflazione che lambisce la doppia cifra, la crescita che rallenta, la crisi energetica e la guerra – che sarebbe impensabile negare a priori qualunque tipo di aggiustamento per la parte del Pnrr relativa agli investimenti. Banalmente, i costi di molti prodotti sono cresciuti a dismisura, quindi gli appalti vanno adeguati o ripensati, come ha detto – tra gli altri – il ministro Giancarlo Giorgetti.
Non ci si può illudere di realizzare le stesse opere a parità di costo. Ciò che, invece, appare non emendabile è la componente di riforme. E su questo che il nuovo governo dovrà misurarsi ed è pertanto utile conoscere la posizione dei leader che per ora si limitano a parlare in termini vaghi di possibili modifiche. Già nei primi cento giorni – spesso ritenuti la fase in cui un nuovo esecutivo può esprimere i propri indirizzi in modo più netto – ci sarà da fare i conti con gli impegni assunti. Se le riforme non rispetteranno il cronoprogramma predisposto da Mario Draghi, condiviso dal Parlamento e approvato dalla Commissione europea, c’è il rischio che i trasferimenti vengano sospesi o addirittura bloccati. La strada è da subito in salita: per realizzare tutti i traguardi e gli obiettivi fissati al 31 dicembre 2022, che sbloccheranno una rata da circa 22 miliardi di euro (al lordo degli anticipi), è necessario dare piena attuazione alle deleghe contenute nella legge sulla concorrenza.
Alcune di esse sono politicamente assai spinose: non solo il riordino delle concessioni balneari, ma anche la riforma dei servizi pubblici locali. Era previsto anche il completamento della liberalizzazione del mercato elettrico, che tuttavia è stato rinviato al 2024. Sempre entro la fine dell’anno in corso, dovranno essere ultimate la riforma delle commissioni tributarie, quella del processo civile e penale e quella della disciplina dell’insolvenza. Su questi temi si sentirà ancora l’influenza del governo Draghi, che può (e deve) usare le ultime settimane disponibili per portarsi avanti quanto più possibile. Nel 2023, però, la palla sarà del tutto in mano al nuovo governo che dovrà conseguire 27 obiettivi o traguardi entro giugno e ben 69 entro dicembre per ottenere, rispettivamente, 18,4 e 20,7 miliardi di euro (sempre al lordo degli anticipi). Quali sono i compiti principali? Anzitutto, dovranno essere definitivamente completate le riforme del processo civile e penale e del pubblico impiego. Un altro scoglio è la riforma del codice degli appalti. Sono sforzi impegnativi dal punto di vista tecnico, ma – almeno sulla carta – non dovrebbero trovare ostacoli soverchi dalla nuova maggioranza e, se ben disegnati, potrebbero anche generare consenso sociale. Tutti – a parole – sono a favore dell’efficienza della giustizia e della PA, ma il diavolo è sempre nei dettagli. E tra il dire e il fare …
Più controversi sono i traguardi previsti per il secondo semestre dell’anno prossimo. In particolare, se dovesse vincere la coalizione di centrodestra, il nuovo esecutivo si troverà ad affrontare temi tradizionalmente ostici. Ancora una volta il punto dolente è la concorrenza. In teoria, entro la fine dell’anno prossimo dovrebbe essere definitivamente approvata e attuata la legge annuale per il 2022 (che non è stata varata) ed essere adottata quella per il 2023. È chiaro che questa sovrapposizione è impossibile, pertanto il governo cercherà di negoziare un accorpamento dei due provvedimenti, probabilmente scaricando la responsabilità del ritardo sul premier uscente. Ma per ottenere il via libera dall’Europa sarà necessario mettere assieme un pacchetto di misure realmente incisive in materie su cui finora la destra ha latitato. Non sarà facile cavarsela con norme manifesto o con interventi di cesello. Tanto più che sono previsti dal Pnrr anche ulteriori interventi di fatto pro-concorrenziali, come la riforma dell’ordinamento delle guide turistiche. Inoltre, si dovrà completare la riforma della scuola, con riferimento sia all’organizzazione dei cicli scolastici, sia alle modalità di reclutamento dei docenti. Un terreno, questo, che sarà presumibilmente infuocato dallo scontro politico. In definitiva, tutti in campagna elettorale tirano il Pnrr per la giacchetta: c’è chi lo disconosce perché negoziato da un precedente governo e ne pretende una modifica, e chi vi vede un argine al dilagare dei barbari ormai alle porte.
Ma il Pnrr è semplicemente una lista di impegni che contrattualmente ci siamo vincolati a realizzare in cambio di cospicui finanziamenti. Come ogni contratto può essere, entro certi limiti, modificato, ma per farlo occorre il consenso di entrambe le parti. E chi vuole ottenere qualcosa (per esempio la revisione dei costi degli investimenti o l’accorpamento delle due leggi annuali per la concorrenza 2022 e 2023) deve anche essere disposto a cedere qualcos’altro (per esempio rinunciare ad arroccarsi a difesa delle rendite di posizione). Se dunque, su un tavolo, il nuovo esecutivo vorrà rivedere i termini di alcuni investimenti, dovrà saper essere molto più riformista su un altro. Ancora una volta, la cartina di tornasole sono le riforme (quelle del Pnrr). Chi è pronto a impegnarsi a realizzarle senza se e ma?