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Il triangolo della destra

Anche con Meloni al governo, l'asse Roma-Budapest-Varsavia sarebbe démodé. Meglio l'eredità di Parigi e Berlino

Dario Di Vico

La Leader di FdI dovrà rassegnarsi alla triangolazione che ci lascia Mario Draghi. Sul terreno dell’economia reale la Polonia è una nostra concorrente, mentre l'Ungheria – filorussa e filocinese – non è allineata con un'Italia che dovrebbe mostrarsi filoatlantica

Una delle eredità più significative che il governo Draghi lascia al sistema Italia è l’aver rinsaldato i legami tra noi e i paesi renani fino a dare forma politico-diplomatica al triangolo preferenziale Roma-Parigi-Berlino. Figura geometrica che può essere esibita senza tema di smentita nella misura in cui esiste nella realtà dell’economia: le grandi catene del valore prosperano anche grazie alla nostra media industria del nord nella veste di fornitore insostituibile delle multinazionali del lusso e dell’automotive. 

  

Grazie a Draghi – pensiamo alla foto del treno per Kyiv – si è quindi resa evidente una sinergia tra economia reale e diplomazia alla quale, per cronica sciatteria, non siamo abituati. E’ interessante parlarne oggi e riflettere sul valore e la forza di questa triangolazione perché uno degli argomenti ricorrenti della polemica di Enrico Letta nei confronti di Giorgia Meloni è proprio quello di prefigurare un altro tipo di asse che legherebbe Roma con Budapest e Varsavia. La replica (abile) della presidente di FdI è stata che in questo momento storico nessuno si deve azzardare a parlar male della Polonia visto il contributo che il paese di Lech Walesa sta dando alla resistenza ucraina e all’accoglienza dei profughi di Kiev. Chapeau. Ma uscendo dal botta e risposta preelettorale è lecito chiedersi fino a che punto si possa parlare di un’entente cordiale fra i tre paesi, quanto sia percorribile.

  

In queste settimane è apparso chiaro agli analisti – e lo ha sottolineato anche Arturo Parisi – che un’ipotetica maggioranza imperniata su Meloni alla fine dovrebbe adottare un mix di policy asimmetriche: continuità con il governo Draghi nelle scelte più immediate di politica economica e forte discontinuità sul terreno invece identitario e culturale. Con l’enfasi rivolta ai cosiddetti valori non negoziabili e più in generale a quelli etichettabili come sociologicamente conservatori. L’asse con Budapest e Varsavia sarebbe quindi, per dirla con una parola démodé, di tipo sovrastrutturale magari con un richiamo a qualche provvedimento ispirato alla stessa cultura politica, ma non oltre. Di conseguenza a generare apprensione e sospetto più che un nuovo asse con l’est è la compromissione degli equilibri precedenti, dovuta magari alla tradizionale acrimonia che il gruppo dirigente di FdI coltiva nei confronti del mondo francese.

  

Sentimento così evidente che sarebbe considerata addirittura una sorpresa se da un eventuale governo Meloni non arrivasse già dalle prime mosse un atto di ostilità. Non dimentichiamo che è in vigore tra Roma e Parigi il Trattato del Quirinale che prevede addirittura che un ministro transalpino possa partecipare una volta a trimestre alla riunione del nostro Consiglio dei ministri (e viceversa). E’ assai difficile che qualcosa del genere possa accadere con la destra a Palazzo Chigi e i probabili vincitori delle elezioni del 25 settembre troveranno il modo di rimarcarlo. La delicatezza delle relazioni con Parigi non riguarda solo il Trattato e le catene del valore ma anche l’industria di serie A: almeno tre importanti gruppi come Stellantis, EssilorLuxottica e StMicroelectronics hanno il doppio passaporto. Quanto al vero motivo dell’ostilità della destra versus Parigi c’è ancora da scavare, quello che emerge dalle dichiarazioni della prima linea meloniana è l’irritazione contro le légion d’honneur concesse a mani larghe a molti esponenti della sinistra ma dietro si cela un non-detto. L’idea molto radicata in FdI secondo la quale la Francia è il retroterra della massoneria internazionale.

  

Minore preoccupazione c’è per quello che concerne i rapporti tra un governo di destra e la Germania. Il paese di Kohl e di Merkel vive un momento di profonda introversione, Olaf Scholz pur essendo socialdemocratico è meno inviso di Emmanuel Macron e se c’è un “partito tedesco” in Italia è comunque circoscritto al club dell’industria manifatturiera, che segue con maggiore trepidazione i dossier che riguardano, ad esempio, la riorganizzazione dell’automotive germanico più che le materie squisitamente politiche. Per farla breve i rapporti Roma-Berlino alla fine sono destinati a passare per Bruxelles e per le sedi decisionali comunitarie. Ma è chiaro che se si guarda agli equilibri di potere dentro la Ue e l’industria europea alla fine conterà chi potrà spendere e chi no. E quindi per l’Italia sarà difficile fare la voce grossa

  

Magari si potrà organizzare in qualche straordinaria location romana e in pompa magna una riunione con i top ceo pubblici e privati “per concordare le priorità del paese”, si potrà enfatizzare l’uso del golden power per difendere il tricolore ma alla fine per la Germania è facile spendere (come abbiamo visto nei giorni scorsi con i 65 miliardi antirincari), per la Francia è un’abitudine mentre sul budget italiano pende sempre la spada di Damocle del debito. Il tutto in una fase storica in cui il nuovo premier inglese, Liz Truss, si vende come una Thatcher-bis ma la prima misura che prende è uno stanziamento pubblico di 180 miliardi di euro per far fronte all’emergenza energetica. Sintesi: Palazzo Chigi targato Meloni dovrà alla fine guardare a queste dinamiche con rispetto e forse con la frustrazione tipica delle situazioni “vorrei ma non posso”. Se non è chiaro vale la pena ricordare come gli obiettivi di politica industriale europea (quelli cari al commissario francese Thierry Breton), a cominciare dal famoso Chips act, alla fin fine devono essere finanziati con risorse nazionali. E quindi la palla torna a Palazzo Chigi, che magari nelle prime riunioni di gabinetto dovrà chiedersi se stanziare soldi per accontentare Matteo Salvini con quota 41 o per partecipare ai progetti strategici dell’industria di domani.

   

Torniamo a Ungheria e Polonia, la cui collocazione internazionale peraltro non è simmetrica. A renderli simili c’è una certa capacità di attrarre investimenti dall’estero e anche una rilevante spregiudicatezza quella che porta ad esempio Budapest a flirtare con i cinesi, ma i due paesi perseguono queste strategie con una mentalità stand alone e tantomeno matureranno la volontà di condividere i loro piani con un governo di Roma seppur di destra. Manca un tessuto comune di collaborazione – che abbonda invece nel triangolo italo-renano – e anzi spesso le famigerate delocalizzazioni odiate da Lega e FdI hanno come approdo proprio le zone speciali polacche, come è capitato in passato per il distretto parallelo degli elettrodomestici in Slesia.

  

Varsavia quindi sul terreno dell’economia reale è di fatto una nostra concorrente mentre il governo di Budapest, filorusso in politica e filocinese in economia, non è in asse con un governo di Roma che non potrebbe che mostrarsi dichiaratamente filoatlantico. E’ vero che in virtù della sua posizione geopolitica la diplomazia polacca gioca mettendo in competizione l’americanismo con l’europeismo ma stiamo parlando di una tattica nemmeno minimamente replicabile dall’Italia. Anzi Roma sarà giocoforza costretta a guardare con qualche timore allo spostamento del baricentro europeo e degli investimenti verso est visto che per tutelare il legittimo interesse nazionale dovremmo proporre scelte che privilegino il Mediterraneo e la cura dei rapporti strategici con i nuovi partner degli approvvigionamenti energetici. Insomma Meloni può strizzare quanto vuole l’occhio a Budapest e Varsavia ma alla fine dovrà convenire che siamo vincolati alla triangolazione che ci lascia Draghi vuoi per quelle catene del valore di cui sopra vuoi anche, e soprattutto, perché il dopo-Maastricht si costruisce con il consenso di Parigi e di Berlino.