Il voto ai Btp
Perché per i mercati queste elezioni non sono allarmanti come nel 2018
Secondo la banca svizzera Ubs, la differenza con il passato sta nella maggior consapevolezza mostrata su temi come spesa e debito pubblico
Le elezioni italiane sono sotto stretta osservazione degli investitori internazionali, che ne attendono l’esito oscillando tra scetticismo e fiducia. Il “sell off” dei Btp partito con l’inattesa caduta del governo Draghi ha lasciato il posto a una sorta di tregua. I rendimenti dei titoli di stato decennali, pur restando i più alti d’Europa (sopra il 4 per cento), non hanno più subito grossi scossoni, complice anche il nuovo strumento antiframmentazione (Tpi) varato tempestivamente dalla Bce.
Così lo spread – che si mantiene tra 220 e 230 punti base, al di sotto della soglia considerata allarmante dei 300 – è il grande assente da questa campagna elettorale. A differenza di quanto è accaduto nel 2018, quando l’affermazione delle forze populiste mise in forte agitazione i mercati. “Oggi la retorica euroscettica e l’Italexit sono temi finiti in fondo all’agenda dei candidati di estrema destra dato il supporto che l’Europa ha dato ai paesi periferici durante il Covid”, osserva un’analisi della banca d’affari americana Bofa. “La preoccupazione è piuttosto quella di un ritorno ai governi deboli che riconsegnerebbero l’Italia a una crescita scarsa riaccendendo i timori sulla sostenibilità del debito”. Lo scenario post elettorale più probabile per Bofa “è un governo di centrodestra che privilegia le esigenze della crisi energetica, rispetto al suo programma elettorale, e punta sull’attuazione del Pnrr piuttosto che sulla rinegoziazione del Pnrr”.
Secondo la banca svizzera Ubs, la differenza con il 2018 sta nella maggior consapevolezza mostrata su temi come spesa e debito pubblico. Matteo Ramenghi, chief investment officer di Ubs Italia, spiega che “la campagna elettorale in Italia non ha finora creato eccessive turbolenze per i titoli di stato per via delle promesse di gran parte dei partiti di non aumentare il deficit al di fuori di quanto concordato con l’Unione europea”. È naturale che di fronte all’elevata inflazione e all’aumento dei costi dell’energia, tutte le forze politiche avanzino proposte per attutire l’impatto su famiglie e imprese. “Ma la gran parte sembra comunque aver compreso che una politica fiscale troppo aggressiva porta a uno spread elevato, sottraendo risorse allo stato e zavorrando l’intera economia: i tassi elevati pagati sul debito pubblico si trasferiscono al settore bancario e da lì a famiglie e imprese, bloccando gli investimenti”.
Insomma, c’è chi ha imparato dalle esperienze passate. Ma la differenza più importante con il 2018 e ancor di più con il 2013, dice sempre Ramenghi, è che in questi anni è salita di molto la popolarità dell’euro: secondo i sondaggi dell’Eurobarometro di 18 punti percentuali dal 2014”. E così anche per il centrodestra, dato per vincente nei sondaggi, sarebbe complicato prendere una posizione netta contro l’euro o contro l’Unione europea, che ha varato il Recovery fund dando all’Italia moltissime risorse.
Non è un caso che la leader Giorgia Meloni, come osserva in un’ampia analisi l’economista Lorenzo Codogno, sta trasmettendo come messaggio di non voler interrompere, se dovesse diventare premier, il flusso di denaro del Next generation Eu verso l’Italia e si sforza di mostrarsi aderente ai valori europei fondamentali. Basta questo per mantenere calmi i mercati? “Nel complesso, penso sia improbabile che il risultato elettorale inneschi un allargamento degli spread di rendimento all’indomani delle elezioni. Ma nel tempo la situazione potrebbe cambiare”, osserva Codogno, il quale avverte come alcune nomine del prossimo governo possano rappresentare un banco di prova.
“Una conferma di Daniele Franco come ministro dell’Economia sarebbe un fatto positivo, poiché gli investitori internazionali vedrebbero la sua posizione indipendente come una garanzia. Mentre qualsiasi altro nome associato alle posizioni politiche del nuovo governo probabilmente non sarebbe il benvenuto”.
Il rischio di un ritorno dell’euroscettisimo esiste, invece, per Barclays, che avverte che se dalle urne uscisse una coalizione con una super maggioranza di almeno due terzi “sarebbe in grado di modificare la Costituzione da sola senza bisogno di un referendum”. Una tale maggioranza, secondo Barclays, renderebbe più facili azioni dirompenti come quello di mettere in discussione l’adesione dell’Italia all’Unione europea, tema che sarà pure in fondo all’agenda dei partiti populisti ma, in effetti, non è mai del tutto scomparso.