Il lavoro che cambia, il grande assente dai programmi elettorali
Più politica fiscale (col taglio del cuneo) che industriale. Nessuna visione sugli effetti della rivoluzione tecnologica. I partiti non parlano del lavoro che si crea, bensì di quello che si conserva perché un paese vecchio difende quello che ha
Con questo articolo Roberto Mania inizia la sua collaborazione con il Foglio.
Tre americani su dieci rischiano di essere sostituiti nel lavoro da un robot o da un computer. Da sempre gli Stati Uniti anticipano quello che succederà anche nel resto del mondo, in particolare in Europa. È un processo pervasivo: macchine al posto dei cassieri nei supermercati, robot al posto degli operai nella catena di montaggio, l’intelligenza artificiale al posto dei giornalisti delle agenzie di stampa per scrivere il resoconto del bilancio aziendale. In Italia (paese già a basso tasso di occupazione) si prevede (lo hanno fatto M. Bannò - E. Filippi - S. Trento nell’articolo “Rischi di automazione: una stima per l’Italia, pubblicato su Stato e Mercato alla fine dello scorso anno) che ci siano fino a sette milioni di lavoratori (il 33 per cento del totale) in bilico nei prossimi dieci anni, minacciati dall’automazione e dalla carenza di formazione adeguata, anche se il nostro modello di capitalismo basato sulle piccole imprese familiari potrebbe rallentare di molto l’ondata tecnologica. Si vedrà, ma nel caso non è detto che sia esattamente una prospettiva positiva.
Certo, la disoccupazione tecnologica non è una novità, ma nuova è la velocità con cui le innovazioni si inseriscono nei processi produttivi e nelle attività di servizio, scompaginando gli antichi modelli fino alla cultura stessa del lavoro.
Di questa trasformazione radicale nel mondo del lavoro non c’è praticamente traccia nei programmi elettorali dei partiti che chiedono il voto agli italiani. C’è la retorica della centralità del lavoro, ma non c’è alcuna visione del lavoro che si riduce e si modifica per effetto della dirompente rivoluzione tecnologica. Vivremo (viviamo?) in una società con meno lavoro e con un lavoro diverso. Ma tutto, nell’approccio dei nostri partiti di varia fattura e dei cartelli elettorali è fermo al Novecento se non addirittura prima, a quelle dinamiche lavoro-automazione, al conflitto sociale conosciuto e sperimentato, al ruolo paternalistico dello stato interventista e per questo salvifico. All’idea che la norma possa tutto: modificare il corso del mercato, cesellare il sistema produttivo, generare lavoro buono, abbattere l’instabilità occupazionale.
Non c’è – nei programmi elettorali – il lavoro che si crea, bensì quello che si conserva perché un paese vecchio – banalmente – difende quello che ha. C’è un tratto comune nelle proposte dei partiti o delle alleanze elettorali a favore del lavoro: quello di una riduzione del costo del lavoro stesso attraverso un taglio del cosiddetto cuneo fiscale e contributivo. E’ almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso che se ne discute. C’era ancora la scala mobile; gli accordi interconfederali dei primi anni Novanta riscrissero le regole delle relazioni sindacali puntando al primario obiettivo di arrestare la spirale prezzi-salari, riconoscendo centralità politica agli attori sociali. E oggi si confondono la politica fiscale con la politica industriale, il welfare fiscale con il welfare sociale. Ridurre il costo del lavoro (tanto più con la ripresa aggressiva dell’inflazione) fa bene alle imprese e alle buste paga dei lavoratori ma non crea di per sé nuova occupazione. L’idea che abbassando i costi e il carico fiscale delle aziende si determinino le condizioni per nuovo lavoro non ha mai retto alla prova dei fatti, come dimostra il sostanziale fallimento degli incentivi per il lavoro: secondo i dati dell’Inapp nel 2021 hanno generato solo il 24 per cento dei nuovi contratti. Piuttosto bisognerebbe far pagare le tasse a tutti per alleggerire il carico fiscale sulla produzione e sul lavoro (tant’è che ce lo chiede l’Europa) per liberare risorse per gli investimenti privati e pubblici, ma finché solo la quota del lavoro dipendente continuerà ad avere il sostituto d’imposta, il nostro resterà un paese ad alto tasso di evasione e a basso tasso di occupazione. Quanto alla discussione sul salario minimo legale, durerà lo spazio d’un mattino o di una campagna elettorale. Possiamo scommetterci, e comunque resta argomento assai arato, non solo in Europa, e del tutto estraneo ai mutamenti tecnologici.
L’attenzione del Pd e di Azione sulla strategicità della formazione e riqualificazione professionale può sottintendere la prospettiva di un cambio del paradigma produttivo. Tuttavia, anche sotto questo profilo, l’approccio di entrambi i partiti sembra più rivolto alla soluzione del noto mismatch tra offerta e domanda di lavoro piuttosto che all’aggiornamento del lavoro di fronte all’accelerazione dell’automazione, che richiederà nuove figure professionali, che definirà minori opportunità di lavoro per ampi strati sociali, e che imporrà progressivamente una diversa distribuzione del tempo di lavoro e di quello di vita. Perché le macchine possono bruciare posti di lavoro ma crearne anche degli altri e migliorare la qualità della vita di molti.
I partiti di questa stagione politica restano appiattiti sul presente, stentano ad alzare lo sguardo oltre il tempo (quando va bene) di una legislatura. Il lavoro – con la sola eccezione di Azione – declina fatalmente nelle pensioni. Nella fine dell’attività lavorativa, dunque. Così che può esprimersi senza esitazioni la concezione prevalente di uno stato sociale risarcitorio: dopo la fatica del lavoro, il risarcimento sociale. Il lavoro, dunque, soprattutto come fatica e non come realizzazione di sé, promozione della propria identità, realizzazione delle proprie capacità. Alla fine arriva la pensione-promessa per le coorti che ingolfano le liste elettorali. E quindi: pensioni minime più alte, uscita anticipata dal mercato del lavoro. Anche qui ignorando, da una parte, gli effetti in termini di crescita del debito previdenziale e, dall’altra, il declino demografico in atto che altera il rapporto fisiologico tra giovani e anziani e inquina la sostenibilità dei conti pubblici. Nel 2065 – calcola l’Istat – il 33 per cento degli italiani avrà più di 65 anni (contro il 23 per cento del 2020), mentre solo il 14 per cento avrà meno di 14 anni. E’ uno scenario lontano solo per i partiti italiani. Che, infatti, non hanno, nella maggior parte dei casi, né futuro e neanche passato. Nascono e muoiono per volere (capricci compresi) di un leader o sopravvivono grazie ai patti consociativi tra usurati capicorrenti, non elaborano progetti ma tattiche elettorali. Nei simulacri dei partiti non ci si sfida ma ci si scinde. Eppure senza partiti (come siamo) è difficile aggiornare l’interpretazione dei processi economici e sociali a meno che non ci si voglia sempre affidare al tecnocrate di turno. Anche per questo il lavoro finisce per trasformarsi in un feticcio elettorale.
E ha ragione, infine, Carlo Cottarelli, il tecnico (non a caso) candidato “punta di diamante del Pd” (Enrico Letta dixit) quando nel suo “All’inferno e ritorno. Per la nostra rinascita sociale ed economica” scrive: “Credo sia essenziale avere un’ideologia (…). Per ideologia intendo la chiara definizione dei principi ispiratori della società in cui vogliamo vivere, anzi, del principio ispiratore. E’ necessario fare questo e non cadere nel tatticismo, nelle decisioni prese in base a quello che sembra essere l’interesse immediato. Senza un’ideologia la politica diventa personalismo, diventa fede nel “lider maximo”, nel capo carismatico che poi spesso finisce per essere presto abbandonato dall’opinione pubblica. Purtroppo è stato così negli ultimi vent’anni. Non so se avete notato il nome di tanti partiti. Non fanno più riferimento a un’idea. Una volta c’era il Partito comunista, quello socialista, quello liberale. E c’era la Democrazia cristiana. Questi nomi erano portatori di un’idea, che poteva piacere o non piacere, ma era un’idea. Da un po’ di tempo predominano partiti personalisti con nomi che suggeriscono energia, vitalità, voglia di cambiare, di rinnovare. Ma per andare dove?”, si domanda Cottarelli. Per restare fermi come da più di vent’anni a questa parte. Ecco: viva l’ideologia.