Perché per la finanziaria Meloni non dovrebbe guardare a Truss

Luciano Capone

I mercati bocciano il mega taglio di tasse (finanziato a debito) del governo britannico. È un segnale che la leader di FdI farebbe bene a cogliere: per la Legge di Bilancio meglio stare alla larga dal fantasie in deficit, soprattutto per un paese con il debito al 145% come l'Italia

Mentre lavora alla preparazione della legge di Bilancio, Giorgia Meloni farebbe bene a guardare a cosa succede dalle parti di Londra. Perché mentre tutti gli osservatori guardavano con apprensione alla risposta dei mercati alla vittoria del centrodestra in Italia è crollata la sterlina. È stata la reazione al “mini budget” del nuovo governo conservatore britannico guidato dal Liz Truss, annunciato venerdì dal Cancelliere dello scacchiere Kwasi Kwarteng: il rendimento sui titoli di stato richiesto dagli investitori è cresciuto come non si vedeva da decenni. È dovuta intervenire anche la Bank of England, promettendo un aumento dei tassi di interesse per contrastare l’inflazione, ma non è stato sufficiente a rassicurare più di tanto mercati.

 

Il governo Truss ha presentato un piano monstre da 45 miliardi di sterline di taglio delle tasse a famiglie e imprese, finanziato in deficit. Il pacchetto prevede il taglio di 5 punti dell’aliquota più alta dell’imposta sui redditi (dal 45 al 40%) e di un punto (dal 20 al 19%) dell’aliquota base, il taglio dei contributi di 1,25 punti e la riduzione dell’imposta sulle società dal 25 al 19%. Il piano, che dovrebbe portare la pressione fiscale sotto il 35%, è la più grande riduzione delle tasse degli ultimi 50 anni (oltre 1,5 punti di pil), superiore persino a quelle dei tempi di Margaret Thatcher.

 

Liz Truss, che cerca di imitarla anche nell’abbigliamento, per giustificare le proprie politiche evoca lo spirito della Lady di Ferro ma si tratta di un parallelo improprio. È vero che alla base di entrambe le impostazioni c’era l’idea che riduzione delle tasse, deregulation, liberalizzazioni e privatizzazioni avrebbero fatto prodotto crescita economica. Ma il contesto è molto diverso, perché a fine anni 70 la presenza statale in economia era molto più intensa e l’aliquota più elevata sui redditi era dell’83%. E soprattutto, la Thatcher aveva come primo obiettivo la lotta all’inflazione e un bilancio in ordine: mentre tagliava le aliquote sui redditi aumentò, ad esempio, l’Iva per evitare effetti inflattivi (il principio era tassare meno le persone e più le cose). E il taglio più consistente della pressione fiscale, quello fatto dal Cancelliere dello scacchiere Nigel Lawson nel 1988, avvenne quando il bilancio era in avanzo dell’1,1%.

 

Truss e il suo cancelliere Kwarteng, invece, decidono di ampliare un deficit che è già ampio, nonostante un debito pubblico ormai vicino al 100%. La scommessa è che la nuova politica economica produca un aumento strutturale del pil potenziale, ma ovviamente questa è la speranza mentre ciò che è certo è l’aumento del debito e dei costi per finanziarlo. Una scommessa rischiosa, che non a caso viene bocciata dai mercati. Anche perché questo enorme stimolo fiscale avviene in aggiunta all’enorme piano contro il caro energia (60 miliardi in sei mesi), costringendo la Bank of England ad alzare ulteriormente i tassi per evitare di infiammare l’inflazione. Più che gli anni della Thatcher, lo stimolo keynesiano in deficit ha ricordato ad alcuni commentatori il “Barber boom” di inizio anni 70, quando il Cancelliere dello scacchiere del governo conservatore di Ted Heath si lanciò in un enorme stimolo fiscale in deficit per far uscire la Gran Bretagna dalla crisi attraverso la crescita, ma complice lo choc energetico la fece precipitare in una spirale inflattiva e poi in recessione.

 

La politica fiscale del governo Truss può risultare affascinante per la destra italiana, non fosse altro perché la Meloni è presidente del partito conservatore europeo che è stato fondato proprio dai Tory, ma anche perché dalle nostre parti è sempre andata di moda l’idea delle misure in deficit che “si ripagano da sole”. Se dopo le elezioni lo spread non è salito a livelli allarmanti è perché gli investitori per ora credono alle parole di responsabilità fiscale di Meloni prima delle elezioni. E la reazione dei mercati al budget del governo Truss è la conferma che il nuovo governo di centrodestra farebbe bene a non cambiare idea, soprattutto considerando che l’Italia ha un debito pari al 145% del pil.

 

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali