La grande partita del petrolio tra Europa, Stati Uniti, Opec e Russia
L'Ue si sta sganciando dalla dipendenza russa in vista dell'embargo e questo fa soffrire Mosca, che perde export. Ma il taglio della produzione voluto dall'Arabia Saudita alza i prezzi e aiuta il Cremlino, così Washington teme che il price cap al greggio russo possa rivelarsi controproducente
La partita dell’energia tra Occidente e Russia si sta spostando dal campo del gas a quello del petrolio. In questo caso, però, il gioco è complicato da altri attori, sia produttori sia consumatori, interessati alla partita. La mossa dell’Opec, di tagliare la produzione petrolifera, complica la situazione per l’Occidente. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) il conseguente aumento del prezzo del petrolio, che era in discesa da tempo, in una fase di già elevata inflazione e di tassi di interesse in rialzo può aggravare le condizioni di un’economia globale sull’orlo della recessione.
Ma se la Russia si avvantaggia della decisione dell’Opec, non può certo gioire per come si stanno mettendo le cose: il calo dell’export è evidente. Secondo l’ultimo Oil Market report dell’Iea, le esportazioni petrolifere russe a settembre sono diminuite di 230 mila barili al giorno, scendendo a di 7,5 milioni, in calo di 560 mila rispetto al livello pre guerra. Nello stesso mese c’è stata una forte contrazione delle importazioni petrolifere dell’Ue dalla Russia: 390 mila barili al giorno in meno rispetto al mese precedente, scendendo a un livello di 2,6 milioni di barili.
Per la Russia questo calo dell’export e della produzione (il paese non riesce a raggiungere la quota produttiva stabilita dall’Opec) ha comportato, sempre secondo l’Iea, una riduzione dei ricavi dell’export di 3,2 miliardi di dollari (ora pari a 15,3 miliardi). Mosca sta erodendo, piano piano, tutti gli extraprofitti della prima parte dell’anno. Il bilancio federale ha chiuso a settembre con un disavanzo, per il quarto mese consecutivo. Da un lato c’è una riduzione delle entrate, ma soprattutto dall’altro un forte incremento della spesa pubblica sia per finanziare la guerra sia per la risposta alla crisi economica innescata dalle sanzioni: nei primi nove mesi del 2022 la spesa russa è stata circa il 20 per cento più alta rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov ha ammesso che il deficit del 2022 sarà più significativo del previsto.
Questo sta accadendo perché i paesi europei, che rappresentavano storicamente il principale mercato di sbocco per il petrolio russo, stanno riducendo progressivamente gli acquisti in vista dell’entrata in vigore delle nuove sanzioni. A meno di due mesi dall’embargo sul greggio russo, che scatta il 5 dicembre, l’Europa deve però ancora trovare fonti di approvvigionamento alternative per 1,3 milioni di barili al giorno di petrolio. Poi a febbraio 2023 sarà la volta anche dell’embargo sui prodotti petroliferi e il distacco sarà completo. Ma la riduzione della dipendenza dalla Russia sta subendo in queste ultime settimane un’accelerazione. Il dato più significativo, rilevato da S&P Global, è quello dell’Olanda, il più grande hub di raffinazione d’Europa, che a settembre ha più che dimezzato il flusso in ingresso dalla Russia scendendo a 165 mila barili al giorno dai 390 mila di agosto (prima della guerra il livello era di 525 mila barili al giorno).
Ci sono, però, in Europa un paio di eccezioni. Una è la Bulgaria, che ha raddoppiato le importazioni di petrolio rispetto a prima della guerra a 155 mila barili, soprattutto per rifornire una raffineria di proprietà della russa Lukoil. Ma Sofia, come altri paesi dell’Europa centro-orientale, ha una deroga europea a importare petrolio russo via oleodotto fino a dicembre 2024. L’altra grande eccezione è l’Italia che, sempre a causa di una raffineria di proprietà della Lukoil in Sicilia, ha più che raddoppiato le importazioni dalla Russia rispetto ai livelli pre guerra (a settembre 325 mila barili al giorno). Il problema è che l’Italia, a differenza della Bulgaria, non ha alcuna deroga e dovrà risolvere il problema della proprietà russa dell’Isab di Priolo nelle prossime settimane, prima che scatti l’embargo. In realtà, il governo Draghi avrebbe dovuto farlo a prescindere visto che l’Italia è diventata il primo importatore euro-occidentale di petrolio russo e il quarto al mondo dopo India, Cina e Turchia.
La Russia, dal canto suo, sta tentando di reindirizzare la sua produzione in Asia. L’operazione è parzialmente riuscita. Ne hanno approfittato India e Cina, che ora rappresentano il 60 per cento dell’export russo, anche per il forte sconto sul greggio degli Urali rispetto al Brent. Il problema è che i costi di trasporto e logistica sono aumentati notevolmente, riducendo i margini. Inoltre Mosca deve cercare a partire da dicembre di reindirizzare da qualche parte nel mondo circa 2,5 milioni di barili al giorno, per il venir meno del mercato europeo. Non è affatto detto che Cina e India riusciranno ad assorbire tutta questa offerta, se non con uno sconto crescente.
In questo contesto, si inserisce il price cap del G7 proposto dagli Stati Uniti, che ha il duplice obiettivo di ridurre i guadagni del Cremlino ma senza togliere il petrolio russo dal mercato (cosa che farebbe aumentare i prezzi e frenare la crescita dell’economia globale). La Russia ha sempre dichiarato di non essere intenzionata a vendere ai paesi che si adegueranno al tetto fissato dal G7, ma la minaccia è sempre stata ritenuta poco credibile. Secondo Bloomberg, però, dopo il taglio della produzione dell’Opec che ha fatto risalire il prezzo del Brent sopra i 90 dollari, nell’Amministrazione americana sono aumentati i dubbi. Il rischio è che ora, con un mercato più volatile, il price cap possa far aumentare ulteriormente i prezzi e rivelarsi controproducente. La decisione dell’Opec, in particolare dell’Arabia Saudita, ha spiazzato l’Amministrazione Biden, che ha poche ssettimane per ricalibrare insieme all’Europa il price cap. La partita è in corso.