Sul caso Priolo, anche se qualcosa sembra muoversi, è tutto fermo
La raffineria in Sicilia della Lukoil si fermerà il 5 dicembre con l'embargo al petrolio russo se il governo non interverrà. C'è stato un incontro al Mise per discutere due vecchie ipotesi, ma nessuna decisione. Una grana per Meloni e Urso
Qualcosa si sta muovendo per evitare la chiusura dell’Isab di Priolo. Meglio tardi che mai, ma troppo tempo è stato perso dal governo Draghi. Manca poco più di un mese prima che il 5 dicembre entri in vigore l’embargo europeo sul petrolio russo, mettendo a rischio migliaia di posti di lavoro in Sicilia e la capacità di raffinazione del paese. L’Isab del polo di Siracusa è un impianto di raffinazione, il più grande del paese, di proprietà della russa Lukoil. Subito dopo l’invasione dell’Ucraina l’Isab, che prima faceva affidamento su diverse fonti di approvvigionamento di cui il greggio russo costituiva circa un terzo, si è trovata costretta a dover utilizzare esclusivamente petrolio proveniente da Mosca.
Questo perché, sebbene la Lukoil non sia soggetta alle sanzioni europee, le banche che hanno sempre lavorato con l’Isab di Priolo hanno sospeso le garanzie per l’acquisto di greggio per “overcompliance”: per rischi reputazionali o per timore di incorrere in future potenziali sanzioni hanno preferito interrompere i rapporti con un impianto controllato da una società russa. Di conseguenza, Isab ha potuto operare solo grazie alle forniture della casa madre. Ma dal 5 dicembre, con l’embargo, sarà impossibile. E la raffineria dovrà fermarsi se non si trova una soluzione per garantire una linea di credito che consenta di acquistare greggi non russi.
Secondo quanto riporta l’agenzia Reuters, lo scorso 17 ottobre c’è stato un incontro al ministero dello Sviluppo economico (non ancora ministero delle Imprese) a cui hanno partecipato rappresentanti di Intesa Sanpaolo e Unicredit, le due principali banche italiane, e di Sace, la società del Mef che si occupa di assicurare le imprese nelle transazioni internazionali. L’oggetto della discussione è stato, secondo l’agenzia, la possibilità di un finanziamento di Intesa e Unicredit coperto da una garanzia da parte di Sace. Si tratta di una proposta tutt’altro che nuova: era stata avanzata mesi fa dall’allora on. Stefania Prestigiacomo (FI) ma accantonata dal governo.
Il problema ulteriore, rispetto ad allora, è che serve tempo che non c’è: se il meccanismo di garanzia diventasse operativo solo a partire da metà dicembre, quelli che sembrano essere i tempi tecnici per approvare la procedura, allora secondo quanto fa filtrare Isab vorrebbe dire che l’impianto sarà costretto a lavorare al di sotto della piena capacità fino a marzo 2023. Ciò vuol dire che serve un altro intervento immediato. Un’opzione è l’emissione da parte del governo di una “comfort letter” per rassicurare le banche che Isab non è soggetta a sanzioni e quindi non c’è ragione per restringerne l’operatività (un precedente riguarda una lettera analoga usata per il caso Tamoil nel 2011, dopo le sanzioni alla Libia di Gheddafi). Anche questa è una soluzione non nuova: era stata proposta proprio dall’Isab già a marzo, e poi ad agosto nell’unico incontro svoltosi al Mise, ma che il governo ha finora ignorato. L’idea della “comfort letter” è stata rilanciata dal sen. Antonio Nicita (Pd), in un’interrogazione con Annamaria Furlan, in cui si chiede al governo una “tempestiva pronuncia” del Comitato di sicurezza finanziaria del Mef, che è l’autorità competente sull’attuazione delle sanzioni europee. Nessuna soluzione nuova all’orizzonte, dunque.
È probabile che quello del 17 ottobre sia stato solo un incontro tecnico, dato che a quella data Giorgia Meloni non era stata ancora incaricata di formare un governo né si sapeva chi sarebbe stato il ministro dello Sviluppo. Peraltro l’Isab non è stata coinvolta né sapeva dell’incontro. La sensazione è che la “comfort letter”, seppure emessa immediatamente, non basterebbe. D’altronde se lo fosse non sarebbe necessario il successivo intervento di Sace, dato che a Isab non serve una garanzia finanziaria ma una copertura legale-istituzionale. Per giunta se la “comfort letter” fosse risolutiva sarebbe grave: vorrebbe dire che l’Italia ha aumentato nel primo semestre 2022 l’import di petrolio russo del 143% perché il governo Draghi non ha scritto una banale lettera.
Insomma, una soluzione non è sufficiente e l’altra arriverà in ritardo. Il terzo step, quello più radicale, sarebbe un cambio di assetto proprietario. Il neo ministro delle Imprese Adolfo Urso sul tema ha dichiarato che ci sono “ipotesi di acquisizione” della raffineria per consentirle di operare dopo l’embargo. Il problema è che i tempi per l’acquisizione di una raffineria da 5 miliardi di fatturato sarebbero ben più lunghi di quelli necessari per una garanzia di Sace. Il 5 dicembre, data dell’embargo, è praticamente già arrivato.