Supermalus 110%
Il Superbonus riduce di pochissimo le emissioni di CO2 e aumenta di molto quelle di debito
Il bonus edilizio del 110 per cento ha fatto ridurre i consumi energetici appena dello 0,5% e ha fatto aumentare i costi di 37,8 miliardi di euro oltre il previsto. Un fallimento totale, sia finanziario sia ambientale
Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti il Superbonus va “rivisto in modo selettivo” perché “non è equo destinare una così ingente massa di risorse a una limitatissima fetta di cittadini”. Dopo tre anni, è il caso di fare un bilancio complessivo di questo bonus edilizio, anche rispetto alla sua efficacia come politica ambientale. Lo scopo della misura è promuovere investimenti per migliorare l’efficienza energetica degli edifici. Un obiettivo cruciale, che però è fallito: a fronte di una spesa colossale, il Superbonus ha consentito la riduzione dei consumi solo per pochi decimi di punto.
Secondo la relazione sulla Situazione energetica nazionale 2021, pubblicata dal Mite, i consumi finali di energia sono circa 103 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (Mtep). Di questi, circa 30 Mtep sono per gli usi residenziali. L’efficienza energetica negli edifici costituisce, dunque, un formidabile volano di risparmio economico, riduzione degli impatti ambientali e rafforzamento della sicurezza energetica. Infatti, il Piano nazionale integrato energia e clima del dicembre 2019 delega proprio alla riduzione dei consumi domestici (e all’elettrificazione di quelli residui) gran parte dello sforzo per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030: da qui alla fine del decennio è prevista una riduzione complessiva dei consumi pari a circa 9 Mtep, di cui 3,3 dal comparto residenziale. Visto che nel frattempo il target di riduzione delle emissioni è aumentato dal 40 al 55%, lo sforzo dovrà essere ancora maggiore. Ci sono, insomma, ottime ragioni per specifiche politiche di incentivo e supporto. La domanda è: il Superbonus 110% ha funzionato?
I dati sono pochi e frammentari, ma una mole crescente di studi sta mettendo seriamente in dubbio l’efficacia della misura bandiera del governo Conte II. Da ultimo, la Relazione sullo stato della green economy della Fondazione per lo sviluppo sostenibile presentata nei giorni scorsi a Ecomondo. “Purtroppo l’impatto del Superbonus sui consumi energetici, a fronte di investimenti molto importanti, è stato in realtà molto limitato – si legge nella relazione – complessivamente sono stati risparmiati meno di 200.000 tep al 31 dicembre 2021, meno dello 0,5% del consumo energetico del settore”. Si tratta di un’ammissione importante, anche per la fonte da cui proviene: Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, è stato un supporter della misura.
D’altronde, questa stima non fa che confermarne altre circolate in precedenza. Un lavoro sui costi e benefici della transizione energetica nel Pnrr italiano di Matteo Alpino, Luca Citino e Federica Zeni per la Banca d’Italia esprime un giudizio netto: “Il Superbonus non è uno strumento economicamente efficiente per contrastare il cambiamento climatico”. Un altro lavoro, pubblicato da uno di noi assieme a Carlo Amenta sulla rivista “Energia”, ha stimato il costo implicito di abbattimento della CO2 attraverso gli investimenti finanziati col Superbonus (ma non necessariamente causati da esso) in 170-210 euro/tonnellata, contro un livello attuale attorno ai 70 euro e una media storica inferiore ai 20 euro.
Il disegno del Superbonus soffre di tre problemi enormi, che dovrebbero essere curati. Il primo è l’entità del beneficio: un’aliquota del 110% non ha pari nel mondo. Tutti gli stati dell’Unione europea dispongono di incentivi analoghi ma raramente superano il 50%. Al limite, sono previsti vantaggi addizionali per i soggetti a basso reddito: proprio l’assenza di qualunque legame col reddito o, meglio ancora, con l’Isee è il secondo limite del Superbonus. Non sorprendentemente, ha effetti pesantemente regressivi, certificati dall’Ufficio parlamentare di bilancio. Il terzo difetto è la sua breve durata: inizialmente introdotto per pochi mesi in una logica post pandemica, è stato successivamente prorogato di anno in anno. Ma gli interventi incentivati spesso richiedono tempo per convincere i condomini e selezionare le imprese.
Di conseguenza, sarebbe stato meglio un’aliquota più bassa (magari con una garanzia pubblica sui finanziamenti bancari per i meno abbienti) in vigore per un arco temporale più lungo (3-5 anni). Il trade off tra lunghezza e generosità è stato risolto da Giuseppe Conte (e mantenuto in seguito, nonostante la contrarietà di Mario Draghi) interamente a favore della seconda. Ciò ha prodotto una misura del tutto squilibrata, che ha scatenato una bolla (anche occupazionale) e contribuito all’aumento dei prezzi, al netto delle truffe. E che, soprattutto, oggi costituisce una zavorra enorme per le finanze pubbliche. Sempre in audizione, il ministro Giorgetti ha detto che il bonus edilizio sta costando molto più del previsto: “L’incremento, rilevato sulla base delle informazioni aggiornate al 1° settembre, segnala uno scostamento complessivo di 37,8 miliardi di euro sull’intero periodo di previsione”. In particolare, per gli anni 2023-2026, si prevede un “peggioramento della previsione delle imposte dirette per importi compresi tra gli 8 e i 10 miliardi di euro in ciascun anno”.
Secondo i dati Enea, al 31 ottobre 2022 il costo per le detrazioni ammesse è pari a 60,5 miliardi di euro. Oltre 3 punti di pil. Praticamente tanto quanto è stato speso nell’ultimo anno e mezzo per far fronte alla peggiore crisi energetica dagli choc petroliferi degli anni Settanta e senza risolvere alcun problema, anzi aggravandone alcuni. Si sono ridotte pochissimo le emissioni di CO2, ma sono aumentate molto le emissioni di debito pubblico.