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problemi e soluzioni

I porti vanno riformati. Cambiare nomi ai ministeri non basta

Marco Percoco

Questo governo ha introdotto il ministero del Mare, ma perché i luoghi di attracco delle navi possano diventare competitivi bisogna arrivare a una liberalizzazione concreta di tutto il settore 

Al di là delle questioni più propriamente politiche, una delle novità del nuovo governo inerisce sicuramente il dichiarato interesse nei confronti della portualità. Negli ultimi decenni, abbiamo assistito a qualche vaga dichiarazione di intenti, alternata a roboanti espressioni circa la centralità dell’Italia nel Mediterraneo o circa la sua morfologia che la farebbe assomigliare ad un immenso molo. La verità è che il settore marittimo-portuale, pur essendo di straordinaria importanza economica, ha ricevuto attenzione limitata ed esso stesso si è chiuso a riccio in uno splendido isolamento, con una conseguente e progressiva perdita di competitività.

 

In questo panorama, il governo Meloni ha istituito un “ministero del Mare” (in verità, il ministero della Protezione civile e delle Politiche del mare) e un relativo Comitato interministeriale per le politiche del mare (Cipom), una scelta che lascia presagire un’attenzione politica al settore forse mai vista. Va pur detto che, a oggi, le competenze specifiche del dicastero guidato dal senatore Musumeci non sono ancora del tutto chiare e c’è da sperare che non sia stato istituito con l’intento esclusivo di contenere e gestire i flussi migratori via mare. Qualora, invece, la creazione di questo nuovo ministero rispondesse a un precipuo disegno di politica economica, è necessario sottolineare come il settore portuale, con specifico riferimento alle concessioni, sta attraversando un periodo di grandi rivolgimenti che si spera possano garantire una concreta liberalizzazione del settore e, quindi, un sostanziale efficientamento.

 

Più nel dettaglio, la competitività dei porti, ovvero la capacità di attrarre navi e merci, dipende inscindibilmente dall’efficienza dei terminalisti, cioè dai soggetti che sono oggi spesso concessionari degli spazi. La normativa vigente è molto farraginosa e in qualche modo repellente per i tanti investitori che guardano ai nostri porti con grande interesse. Le ragioni di tale fragilità sono riconducibili a due grandi questioni: la scarsa trasparenza dei meccanismi di rilascio delle concessioni e la mancanza di una specifica regolazione finanziaria che cristallizzi gli obblighi tra le parti e pure le relative aspettative.
I prossimi mesi saranno cruciali per modificare lo status quo in quanto, a seguito di chiare pressioni comunitarie, il Pnrr e il ddl Concorrenza hanno finalmente previsto una profonda riforma del settore che, nello schema proposto dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (ex Mims), dovrebbe ora affidarsi a gare trasparenti ed effettivamente aperte. Ma non è finita qui.

 

Il comparto marittimo si trova ora sotto la lente dell’Unione europea che intenderebbe spronarne la decarbonizzazione, assoggettandolo al mercato Ets, ovvero all’obbligo di acquistare dei “diritti a inquinare”, aumentandone i costi. Inoltre, e per altro verso, la stessa scure comunitaria potrebbe abbattersi sui già magri bilanci delle autorità di sistema portuale, attraverso la proposta imposizione fiscale dei ricavi.

 

Queste scarne considerazioni mostrano inequivocabilmente come il settore marittimo-portuale stia attraversando un momento di criticità estrema e di come il neonato ministero si trovi innanzi a sfide di grande importanza per tutta l’economia italiana quali: a) la necessità di attrarre capitali nei nostri porti, anche per favorire la transizione ecologica del settore, portando a compimento la necessaria riforma delle concessioni, su cui si è già espresso positivamente il Consiglio di stato; b) qualora dovesse realizzarsi compitamente il disegno di assoggettamento fiscale di parte dei ricavi delle autorità di sistema portuale, sarebbe necessario, a rigor di logica, un sostanziale ripensamento di questi enti, eventualmente trasformandoli in società per azioni.

 

In definitiva, a prescindere dalle ragioni comunicative e politiche, è indubbio che il “ministero del Mare” dovrebbe giocare un ruolo di grande importanza per l’economia italiana, che necessita di un sostegno alle imprese non tanto di natura finanziaria, quanto di interventi concretamente industriali attraverso un miglioramento della competitività dei porti e una concreta liberalizzazione del settore.

 

Marco Percoco
Università Bocconi

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