Due o tre ragioni per orientarsi nel grande flop della Cop27
Difficile se non impossibile piegare le curve di emissione ai desiderata degli organismi internazionali. Sarebbe più saggio trovare soluzioni che prendano atto delle implicazioni ambientali, della crescita della popolazione, del benessere economico in un mondo di paesi sovrani motivati da legittimi ma spesso contrastanti interessi
La COP 27 è entrata stancamente nella sua seconda settimana volgendo alla sua conclusione venerdì 18 novembre, senza particolari elementi di novità, specie sull’irrisolto problema della finanza climatica, al di là della monotona litania sugli impegni dei governi. Da ultimo il presidente Joe Biden che, annunciando un raddoppio dei fondi americani alle politiche di adattamento dell’intera Africa a 150 milioni di dollari (!), ha ribadito – “per evitare l’inferno climatico” tanto per allinearsi agli altri catastrofisti – la volontà di una riduzione delle emissioni nei prossimi vent’anni, al 2030, intorno al 50 per cento: 3 volte quella osservata nei trascorsi vent’anni. Un obiettivo difficilmente raggiungibile, osservando le stabili emissioni del settore dei trasporti che più vi contribuisce.
Da ultimo, è da segnalare l’ardita uscita di Frans Timmermanns, vicepresidente della Commissione, che giunto in Egitto ha annunciato al grido “abbiamo fatto 30, facciamo 31” l’intenzione di aumentare d’emblée la riduzione in Europa delle emissioni al 2030 dal 55 per cento al 57 per cento. Una variazione solo apparentemente minima, senza per altro indicarne i costi e chi debba sostenerli. Ma alzare l’asticella degli obiettivi allungandone al contempo l’orizzonte temporale è divenuto il generale divertissement con l’Europa incontrastata campione. Un esercizio che non costa niente mentre fa fare sempre una gran bella figura.
Nel frattempo continuano ad uscire dati allarmanti sull’andamento delle emissioni di anidride carbonica. Le prime stime del 2022 del Global Carbon Project le collocano in aumento oltre i 40 miliardi di tonnellate, agli stessi livelli pre-pandemia, nonostante il calo prossimo all’1 per cento registrato in Cina. Gli attuali livelli emissivi riducono progressivamente il “carbon budget”, ovvero quanto è possibile ancora emettere per rispettare la soglia critica degli 1,5°C. Dopo i 2.500 miliardi di tonnellate emesse dal 1850 ad oggi esse non dovrebbero superare in futuro le 500 miliardi di tonnellate. Se nell’ultimo quarto di secolo il processo di difesa dell’ambiente gestito dalle istituzioni internazionali non è riuscito a fare concreti passi avanti – come confermato nella COP 27 – vi è da chiedersi se vi siano delle possibilità di riuscirvi nel prossimo quarto di secolo. Ovvero se non sia più saggio trovare soluzioni che prendano atto delle implicazioni ambientali, della crescita della popolazione, del benessere economico in un mondo di paesi sovrani motivati da legittimi ma spesso contrastanti interessi.
Del resto, è difficile se non impossibile piegare le curve di emissione ai desiderata degli organismi internazionali. Nei suoi primi rapporti l’IPCC esaminò ben 256 scenari che proiettavano a metà secolo il raddoppio delle emissioni, basandosi su modelli probabilistici che, come acclarato in una Conferenza internazionale dell’Accademia dei Lincei, sono ancora ad uno stadio “infantile”. Confidiamo nella possibilità che crescendo attenuino le prospettive catastrofiche che vanno alimentando. Prospettive che, in sostanza potrebbero essere migliori di quanto si ritenga.