i numeri
Perché alcune stime sull'impatto del Superbonus sono eccessive
Diversi studi stimano effetti moltiplicativi della spesa effettuata sul sistema produttivo di assoluto rilievo con un ritorno in termini di gettito per lo stato veramente sorprendente. Una controanalisi
La scorsa settimana si è parlato molto sui media dell’impatto del Superbonus sull’economia. Alcuni studi stimano effetti moltiplicativi della spesa effettuata sul sistema produttivo di assoluto rilievo con un ritorno in termini di gettito per lo stato veramente sorprendente.
Una prima ricerca è stata effettuata dal Consiglio Nazionale degli Ingegneri (Cni) che ha valutato l’effetto sul sistema economico della prima tranche di soldi spesi per finanziare il Superbonus. In particolare, è stata effettuata una stima dei cosiddetti moltiplicatori della produzione nel settore delle costruzioni e dei servizi di ingegneria e architettura. Il rapporto del Cni stima un moltiplicatore della produzione pari a 2,1. Ciò vuol dire che una spesa di 100 attiva produzione pari a 210. Questo moltiplicatore è stato poi ripreso dal Censis per stimare l’effetto sulla produzione degli attuali 55 miliardi spesi attraverso il Superbonus che hanno implicato un finanziamento di 60,5 miliardi. Questi attiverebbero un volume di produzione complessiva pari 115,8 miliardi.
Si potrebbe essere indotti a pensare che una spesa di 55 miliardi possa attivare 115,8 miliardi di pil. Tuttavia, è noto che il valore della produzione, così come definito dallo schema di Leontief (utilizzato nelle stime) è dato dalla somma del valore dei beni e servizi intermedi e del valore aggiunto. Quest’ultimo, che è dato dalla somma delle remunerazioni dei fattori produttivi, non è altro che il pil. Quindi il moltiplicatore del valore aggiunto o pil è ovviamente inferiore al moltiplicatore della produzione. Secondo quanto stimato da Cni, questo sarebbe leggermente inferiore a 1. Chiariamo con un esempio. Si ipotizzi che un’impresa di costruzioni abbia preso un incarico per la sostituzione di finestre di un edificio. L’impresa compra finestre per un valore di 6.000 euro da un’altra impresa i cui costi di produzione, per semplificare, sono ipotizzati nulli. Successivamente l’impresa edile effettua il lavoro di sostituzione e posa delle finestre per un totale di 9.000 euro. Il totale della produzione attivata è pari a 6.000+9.000=15.000, tuttavia il valore del consumo finale è 9.000, che coincide col valore aggiunto attivato nell’intera filiera produttiva. Infatti, al primo stadio l’impresa che produce finestre, avendo costi nulli registra un valore aggiunto pari a 6.000, al secondo stadio l’impresa edile ricava 9.000 e spende 6.000, ottenendo così un valore aggiunto di 3.000.
Dal rapporto del Censis emerge un dato sorprendente, ovvero che 55 miliardi di spesa dovuti al Superbonus indurrebbero un gettito di 42,8 miliardi, ovvero il 70,7 per cento della spesa statale per il Superbonus. Il Cni nel calcolo del gettito dopo il primo anno in cui la misura era in vigore, correttamente considera come base imponibile l’ammontare speso in costruzioni e servizi di ingegneria e architettura e applica un’aliquota di poco superiore al 37 per cento. Quest’aliquota, se applicata al valore aggiunto realizzato finora, che ipotizziamo coincidere con la spesa effettuata, pari a 55 miliardi, restituisce un gettito di 20,35 miliardi lontano dai 42,8 miliardi del rapporto.
Tuttavia, se si applica il 37 per cento ai 115 miliardi di produzione totale attivata si ottengono esattamente i 42,8 miliardi. Se così fosse, si starebbe sovrastimando il gettito di più del doppio rispetto a quello effettivo che si ricaverebbe applicando l’aliquota di riferimento al valore aggiunto attivato. Si noti che circa l’81 per cento delle imposte in vigore in Italia riguarda il valore aggiunto o parte di esso. Tra queste, le più rilevanti in termini di gettito sono Irpef, Ires, Iva e Irap.
In particolare, l’Iva, che è un’imposta sulle vendite, colpisce il valore aggiunto generato da ogni stadio del processo produttivo, ovvero il valore del consumo finale. Riprendendo il nostro esempio iniziale l’impresa edile quando compra le finestre paga sui 6.000 euro del prezzo di acquisto l’Iva al 22 per cento. Quindi l’impresa che produce finestre riscuote 7.320 e versa all’erario 1.320. Successivamente l’impesa edile riceve per il lavoro effettuato 9.000 euro più Iva (che, per chi ristruttura patrimonio edilizio, è al 10 per cento), ovvero 9.900, che vengono pagati dal committente, il quale fruisce della detrazione del 110 per cento di quanto speso. L’impresa che ha effettuato i lavori riceve indietro l’Iva sull’acquisto delle finestre (1.320) e versa allo stato l’Iva sul lavoro effettuato (900). Nonostante il valore totale della produzione o vendite sia 15.000, lo stato incassa 900 di Iva, cioè il 10 per cento di 9.000 che è il valore del consumo finale (finestre installate), ovvero il valore aggiunto prodotto durante l’intero processo produttivo: 6.000 nel primo stadio e 9.000-6.000=3.000 nel secondo stadio. Quindi il gettito da Iva si calcola applicando l’aliquota del 10 per cento a un ammontare che si ottiene scorporando dal totale delle vendite, pari a 15.000, i 6.000 dovuti alla vendita e acquisto di beni intermedi (finestre). Per quanto riguarda le altre imposte Irpef, Ires e Irap la logica è più immediata poiché sono imposte che insistono direttamente o sull’intero valore aggiunto o su parte di esso.
Leonzio Rizzo, professore di Scienza delle Finanze Università di Ferrara