i dossier
Ita, Tim, Ilva, Priolo: dolorosa ammissione su quattro guai mal gestiti da Draghi & co
Su questi dossier il precedente governo ha scelto di non scegliere e ora il rischio è tornare allo stato nazionalizzatore. Non crisi aziendali circoscritte, ma grandi imprese che presidiano crocevia industriali essenziali
Viene talvolta il momento di dire cose dolorose, ma va fatto anche se i più lo evitano. Il governo Draghi ha avuto molti grandi meriti, ma ha anche commesso errori gravi. Va detto: su Ilva, Tim, Ita e Isab, la non-scelta lascia danni rilevanti. E si tratta di siderurgia a ciclo integrale, 5G, trasporto aereo, quota importante della raffinazione petrolifera dell’intero paese. Non crisi aziendali circoscritte, ma grandi imprese che presidiano crocevia industriali essenziali.
Su Ilva, da dieci anni ormai oscilla il pendolo del pieno ritorno sotto la mano pubblica. L’eredità che Draghi ebbe dal governo 5S-Pd era pessima. Mentre la soluzione di mercato pilotata da Carlo Calenda al Mise si era chiusa a favore di Arcelor-Mittal con impegni industriali e finanziari chiari su bonifiche, investimenti, garanzie ai dipendenti nonché del pagamento di 1,8 miliardi ai creditori, il reingresso dello Stato con Invitalia varato da Conte reimpegnò miliardi del contribuente prevedendo al 2022 il ritorno alla gestione di stato. Un pasticcio che ha posto le basi per perdere la ripresa della domanda internazionale di acciaio post pandemia e spalancare le porte al disimpegno Mittal da Taranto, nel conflitto tra stato che metteva soldi e privato disincentivato a farlo. Nel frattempo, e bonifiche dell’immenso parco minerario sono state compiute, ma è rimasta senza risposta l’alternativa tra difesa e potenziamento del ciclo integrale accelerando i lavori su Afo5, o se ripiegare solo su forni elettrici. La scelta nel 2022 assunta sotto Draghi di rinviare al 2024 il controllo pubblico è stato un calcio alla lattina. Andava aperta una nuova procedura pubblica e di mercato per cedere Ilva. Il rischio è tornare a una rinazionalizzazione onerosissima.
Su Tim, OpenFiber pubblica doveva servire solo a investimenti per banda larga nelle “aree nere” a bassissima redditività. Ma è diventata la via per sognare una Tim ristatalizzata. Enel uscì da OpenFiber un anno e mezzo fa, lasciandone il 60 per cento a Cdp e il 40 per cento a Macquarie. Il tema della “rete unica” di stato ha aggiunto una fortissima spinta alla perdita del titolo Tim, aggiuntiva rispetto alle difficoltà delle società, l’ingente debito e i bassi margini sul mercato italiano. Il governo Draghi sapeva che una rete primaria ripubblicizzata solleva obiezioni serie in Ue e perder tempo avrebbe solo messo ancor più nei guai Tim. Eppure fissò al 30 novembre la scadenza per Cdp di un’offerta finale a Tim, scadenza ora sostituita dalla promessa del nuovo governo di decidere entro il 31 dicembre. Nella grande sarabanda della ristatalizzazione, nessuno ha detto con quanti miliardi e presi dove accollarsi l’azienda, debito e dipendenti, nonché per investire poi. Dario Scannapieco alla guida di Cdp non ha mai potuto dirlo: ma è una prospettiva brividi.
Su Ita, non c’era analista del trasporto aereo che non richiamasse il valore dell’offerta cargo-intermodale del gruppo Aponte-Msc che affiancava Lufthansa, rispetto alla cordata in cui solo il piccolo fondo d’investimento americano Certares metteva soldi, mentre ad Air France e Delta interessavano solo la partnership commerciale. Ma il Mef convinse Draghi che occorreva rilanciare la trattativa per evitare svendite e per garantirsi posti pubblici nel futuro cda. Così si è perso il 2022 in nuovi round, scartando l’unica proposta di privatizzazione vera – quella di Msc-Lufthansa – che metteva lo stato al riparo da nuove ricapitalizzazioni e apriva la porta a ciò che tutti i grandi player dello shipping mondiale stanno facendo, entrare nel trasporto aereo. Scelta incomprensibile, che ha devastato i vertici Ita e fatto scappare Aponte. Oggi, il governo Meloni deve scegliere scontando enorme diffidenza maturata nei potenziali compratori.
Per l’Isab di Priolo: da aprile l’azienda implorò il governo di concedere garanzia pubblica, senza di cui non venivano concesse linee di credito necessarie a rifornirsi di petrolio non russo, necessità ancor più impellente con le sanzioni Ue all’oil russo. Ma il governo Draghi ha preso tempo, e oggi l’alternativa è chiusura dell’impianto o rinazionalizzazione folle: anche qui per il post Lukoil serviva una procedura pubblica rapida di cessione a privati.
Verissimo: sul governo Draghi i partiti premevano, la Lega era contraria all’opa di Kkr su Tim, il Pd scontava gli errori commessi con Conte, tutti sparano contro altoforni e petrolio. Ma non scegliere e tornare allo stato nazionalizzatore per disperazione invera l’ultimo librino di Giuliano Amato: bentornato Stato, ma… se non fai tesoro degli errori del passato ripeterai l’errore delle vecchie “Partecipazioni Statali”, falò di risorse, efficienza e trasparenza.