Vivere di allarmismo
L'economia italiana tiene, ma non è una notizia per l'industria del catastrofismo
L'inflazione scende, il lavoro va, il pil regge, ma assecondare la narrazione di un paese che non ce la fa è più semplice. Anche se i problemi esistono, l'Italia reagisce meglio del previsto alla crisi
Perché le buone notizie fanno così paura? Nell’attesa che tutto vada male, e certamente tutto presto andrà male, nelle ultime settimane, sotto i nostri occhi, sono comparse alcune notizie misteriosamente ignorate dalla grande stampa. Notizie non drammatiche, anzi positive, anzi incredibilmente positive, che avrebbero potuto offrirci un po’ di sollievo, un po’ di conforto, e che invece, essendo decisamente poco allineate con una narrazione dominata da allarmismo, catastrofismo e pessimismo, sono state semplicemente rimosse dalle nostre e dalle vostre timeline. Per la vostra gioia, le abbiamo raccolte in un file sulla nostra scrivania, file irresponsabilmente denominato “in attesa della catastrofe”, e abbiamo scelto di metterle qui di fronte ai vostri occhi, una per una. Non per dimostrare, ovviamente, che non ci siano problemi, e quando l’inflazione di un paese si avvicina al dieci per cento è ovvio che i problemi esistono, ma per dimostrare che la tenuta di un paese come l’Italia, anche in un momento di possibile crisi, per qualche strano sortilegio è sempre migliore rispetto alle più fosche aspettative.
Dato numero uno, il pil. A metà novembre, l’11 per l’esattezza, la Commissione europea ha rivisto al rialzo le attese sulla crescita dell’Italia nel 2022 e, rispetto alle stime di luglio, ha previsto che il pil dell’Italia, per l’anno in corso, salirà al 3,8 per cento, contro il 2,9 per cento precedentemente stimato. Qualche giorno prima, altra sorpresa: l’Istat comunica che i dati del terzo trimestre dell’Italia, in un contesto europeo di grande difficoltà, sono cresciuti più del previsto. I numeri li ricorderete: più 0,5 per cento, contro una stima precedente pari a -0,2. Sempre l’Istat, a fine novembre, ha offerto un altro dato interessante, non valorizzato, quasi ignorato, sulla fiducia dei consumatori in Italia. A novembre, surprise, torna a risalire la fiducia dei consumatori (da 90,1 a 98,1) e torna a risalire anche la fiducia delle imprese (da 104,7 a 106,4) in flessione costante da quattro mesi. Nel terzo trimestre dell’anno, poi, come ha scritto Milano Finanza dando conto delle trimestrali industriali Euronext, le grandi aziende italiane hanno mostrato una solidità e uno stato di salute incredibili. Leonardo ha fatto registrare un 190 per cento in più. Pirelli un 51 per cento. Ferragamo un 83,7 per cento in più. Brunello Cucinelli e Moncler un 70 per cento in più. Prysmian un 69 per cento in più. Tenaris un 139 per cento in più. ST Microelectronics un 116 per cento in più. Poste italiane un 21 per cento. Inwit un 45 per cento in più. Il 30 novembre, ancora il Financial Times scrive che in Europa, l’inflazione, potrebbe aver raggiunto il suo picco e nota che, nonostante le previsioni pessimistiche, il costo della vita è sceso prima del previsto, passando da un più 10,6 per cento a un più 10 per cento, e facendo segnare una diminuzione dell’indice per la prima volta da diciassette mesi a questa parte. Anche la Germania, il grande malato d’Europa, a novembre ha fatto segnare un numero positivo del pil, registrando un miglioramento nelle previsioni di crescita (+0,4 per cento, contro un +0,3 per cento stimato). Piccoli numeri, certo, ma che sommati l’uno con l’altro offrono un’indicazione rispetto a quello che sta succedendo: e se le democrazie occidentali fossero in grado di adattarsi ormai con grande velocità alle crisi sistemiche?
Un segnale interessante, da questo punto di vista, è quello registrato in Italia qualche giorno fa, misteriosamente ignorato dalla grande stampa, ed è notizia del 23 novembre che l’indice Gini, che misura le diseguaglianze, in Italia, nell’ultimo anno, è calato. E’ calato l’indice che misura la diseguaglianza, per l’appunto, passando dal 30,4 a 29,6 per cento, ed è calato anche l’indice che misura il rischio di povertà passando dal 18,6 al 16,8 per cento. Non era vero, dunque, che le politiche draghiane, come sostenevano per dire i sindacati, fossero una minaccia per i più poveri, così come non era vero, vecchia tesi dei sindacati più estremisti, che lo sblocco dei licenziamenti avrebbe prodotto, come si sostenne nel 2021, maggiore disoccupazione. E questa tesi – portata avanti a colpi di sterili piagnistei dalla Cgil – si è dimostrata falsa al punto che, altra notizia interessante, l’Italia ha oggi un tasso di occupazione record, rispetto alla sua storia: 60,2 per cento (sì, avete capito bene: dare libertà agli imprenditori non significa dare agli imprenditori l’opportunità di licenziare di più).
Cala la disoccupazione, migliora il pil, migliora la fiducia, non peggiora lo spread – che nonostante l’avvento del governo Meloni-Pichetto Fratin continua a non registrare alcun segnale di sfiducia –, continua a diminuire il costo del gas (ieri leggermente in risalita ma ormai tre volte meno caro rispetto ai prezzi di agosto: 120/130 euro MWh contro i 330 di questa estate) e allo stesso tempo alcune delle sfide che venivano descritte come impossibili si sono regolarmente rivelate come possibili. Si diceva che sarebbe stato praticamente impossibile raggiungere lo stoccaggio di gas necessario per passare indenni l’inverno e lo stoccaggio è stato raggiunto. Si diceva che l’autunno italiano, a causa della crisi, sarebbe stato inevitabilmente caldo. E almeno finora, grazie alla pazienza degli italiani, grazie alla loro capacità di adattamento, grazie ai sostegni e ai ristori messi in campo dagli ultimi governi prima ai tempi della pandemia e poi ai tempi della crisi energetica e grazie ai due inconfessabili tesoretti di cui dispongono gli italiani (200 miliardi di euro in risparmi privati accumulati durante gli ultimi due anni e 200 miliardi di economia sommersa che spiegano perché il pil italiano rappresenta una stima solo parziale della ricchezza degli italiani), l’unico “caldo” importante registrato durante questi mesi è stato quello legato al clima, caldo pericolosissimo rispetto al nostro futuro, naturalmente, ma calore involontariamente provvidenziale per questa fase storica (a causa del caldo anomalo registrato negli ultimi mesi, a causa o grazie, sono stati risparmiati circa tre miliardi sul costo delle bollette).
Le notizie buone esistono, sono tra noi, sono più del previsto e sono così tante da aver indotto, lontano dall’Italia, alcuni osservatori internazionali a chiedersi se anche questa volta, rispetto al futuro, gli economisti più accreditati non abbiano visibilmente sbagliato le loro previsioni, rispetto alla recessione futura (“Expert warn of a recession – but it still hasn’t arrived”, ha scritto martedì il Washington Post). Ma le notizie buone, in un paese abituato a governare le emergenze, in un paese dove, per capirci, i sindacalisti devono necessariamente descrivere una situazione peggiore del previsto per poter avere il diritto di essere ascoltati quando chiedono qualcosa al governo, continuano a trovare poco spazio sulla stampa, nei telegiornali e nei talk show non perché qualcuno non si accorga delle buone notizie che esistono in mezzo alle notizie cattive ma perché assecondare la narrazione del paese che non ce la fa, della crisi che non può che arrivare, dell’autunno caldo che non potrà non presentarsi di fronte ai nostri occhi è il modo più semplice e forse più pigro di raccontare l’Italia. Ed è un modo come un altro per continuare ad assecondare un mostro divenuto un business, che a sua volta genera pil, occupazione e ricchezza: l’industria del catastrofismo. Un’industria specializzata nella raffinatissima arte di separare i fatti dalla realtà e che non può permettersi per nessuna ragione di assecondare l’idea che, in un mondo destinato a finire a schifio, ci sia qualcosa che potrebbe persino non andare a rotoli.