Riformismo dimezzato
Cosa lega flat tax, quota 100 e superbonus? Dati sul populismo economico
I tempi improvvisi di correzione del bonus edilizio hanno più a che fare con la necessità di liberare risorse che con l'urgenza di un decreto legge. Ma non è che se una misura ha fatto un buco di bilancio per 38 miliardi allora quei 38 miliardi si possono spendere in altre misure magari altrettanto sbagliate
Da pochi giorni è terminata la possibilità di usufruire del superbonus 110% e già hanno ricominciato a circolare rapporti con stime mirabolanti dell’effetto del 110% sul pil che non tengono conto che lo stesso effetto si avrebbe probabilmente con una misura più contenuta al 90% o anche al 70%. Piuttosto bisogna risolvere il problema dei crediti incagliati per le imprese che hanno iniziato i lavori. Il problema degli incagli blocca il 110% da diversi mesi: le banche hanno raggiunto il loro limite di capienza e l’unica speranza è trasferire il credito per legge sul pagamento di altre imposte. Il bonus edilizio ha una lunga storia e già nel 2015, quando era al 65% con un embrione di possibilità di cessione del credito ai soli incapienti, fu ritenuto un grande successo: il settore edilizio ne trasse grande giovamento così come il PIL e l’emersione del sommerso. Anche allora era noto il suo principale difetto: lo utilizzavano più le famiglie benestanti magari per la seconda casa piuttosto che le case popolari nelle periferie e i condomini con più abitazioni. Era già una misura “di classe” ma i partiti di sinistra allora al governo lo ritennero un problema tollerabile.
Del resto c’era una compartecipazione sostanziale alla spesa da parte dei privati e l’intento era nobile: migliorare l’efficienza energetica degli edifici privati è anche (in piccola parte) un bene pubblico. Ci si focalizzò giustamente sui condomini rendendo possibile la cessione del credito fiscale agli operatori privati che facevano l’operazione edilizia. Ma la cessione del credito alle banche non era possibile per le regole europee: qualsiasi debito dello stato in mano alle banche avrebbe comportato che l’intero ammontare dell’operazione sarebbe stato considerato debito pubblico. Divenne possibile solo nel 2020 in concomitanza con la pandemia. Poi il superbonus 110% divenne nel bene e nel male la bandiera dei 5 stelle al governo e lo è tuttora che sono all’opposizione. Dal 65% si è passò al 110% per cui non c’è nessuna compartecipazione del privato ai costi e si aggiunse la cessione del credito alle banche che poi fu così estesa tanto che i crediti rischiavano di divenire indipendenti dai lavori di ristrutturazione stessi.
All’inizio la resistenza ad introdurre la cessione del credito come una moneta fiscale (un concetto propagandato ai tempi proprio da esponenti della Lega) fu ferrea ma poi si cedette non solo sul super bonus 110% ma anche su altri bonus. L’estensione della cessione del credito agli altri bonus aprì la strada alla possibilità di truffe. Gli altri bonus, soprattutto bonus facciate e ecobonus 65% non avevano il requisito del visto di conformità e dell’asseverazione dei lavori quindi i truffatori generavano crediti per lavori inesistenti. I requisiti furono poi corretti anche per gli altri bonus ma per il 110% il problema non sono mai state le truffe quanto piuttosto la distribuzione dei benefici. All’inizio ci fu forte resistenza anche ad arrivare al 110% di credito: mai si era vista una misura in cui lo Stato più che compensava una spesa privata. Più volte si è provato a ridurre la percentuale di contributo pubblico sempre senza esito. I governi precedenti hanno proposto a più riprese il decalage della misura ma scagli la prima pietra chi in Parlamento non ha sempre chiesto e ottenuto la proroga, anche le forze politiche che ora governano. A legge vigente prima del decreto legge del governo Meloni il 110% era previsto comunque finire a dicembre 2022 per le case unifamiliari e fino a tutto il 2023 per le multifamiliari e per i condomini (dal 2024 era previsto un rimborso solo al 70%). Il governo attuale quindi anticipa la fine del 110% solo per i condomìni per i quali in realtà ha più senso mantenere un rimborso vicino al 100% perché altrimenti non ci si mette d’accordo tra condòmini e i lavori non si fanno. Estende invece la misura per le case unifamiliari anche se con un limite di reddito familiare (è sbagliato abbandonare l’ISEE come indicatore perché l’utilizzo dell’ISEE ha permesso l’emersione del patrimonio immobiliare). Gli va comunque riconosciuto il merito di aver detto per la prima volta forte e chiaro quel che i due governi precedenti hanno provato a dire senza grande successo. Deve però ancora resistere al Parlamento.
Non ha senso mantenere una misura al 110% per le case private (e infatti non c’è in nessuna parte del mondo), produce solo inflazione perché non essendoci compartecipazione dei privati, e nonostante i listini bloccati dei prezzi, non c’è controllo sui prezzi tanto paga Pantalone. Non si può sostenere che l’efficienza energetica di una casa sia un bene pubblico per cui il proprietario non deve pagare nulla e paga tutto lo Stato. La spesa pubblica finora sostenuta – dati ENEA – è di 113 mila euro medie per ognuna delle 191 mila famiglie che hanno fatto i lavori su case unifamiliari, il che significa che alcune famiglie hanno ricevuto fondi per ben più di 200 mila euro.
Oggi i dati sulle cessioni di credito ci indicano una spesa totale di 60 miliardi, ben 38 miliardi più del previsto. L’annuncio che i tempi di correzione sono improvvisi (dal 25 novembre in poi si scende al 90%) ha poco a che fare con necessità e urgenza di un decreto legge. Ha più a che fare con la necessità di liberare urgentemente risorse pluriennali per pensioni e flat tax. Ma non è che se una misura ha fatto un buco di bilancio per 38 miliardi allora quei 38 miliardi si possono spendere in altre misure magari altrettanto sbagliate. L’errore del 110% è stato quello di una misura eccessivamente generosa per pochi fortunati e spesso benestanti, le pensioni con quota 100 e la flat tax non sono esenti dalla stessa critica. Ad esempio per ognuno delle 380 mila persone che hanno usufruito di quota 100 (69% sono uomini) si stima una spesa media di 60 mila euro.