povertà vo' cercando
Disuguaglianze in crescita e classe media che scompare? Le statistiche dicono altro
Il coefficiente di Gini tirato da destra e da sinistra, giovani in difficoltà, ma la politica pensa alle pensioni. E dall'ultimo rapporto Istat emerge la solita, dimenticata verità lapalissiana: solo la crescita batte la povertà
Chi era Corrado Gini e perché oggi si parla così tanto di lui, al punto che s’è formata una coalizione trasversale, destra-sinistra, per mettere alla gogna la sua brillante innovazione? Se digitiamo il nome su Google troviamo che è nato nel 1884 a Motta di Livenza (oggi in provincia di Treviso); dopo gli studi di giurisprudenza a Cagliari comincia a occuparsi di statistica, disciplina ancora tutta da arare, prima a Padova poi a Roma, dove Benito Mussolini in persona nel 1926 lo incarica di fondare l’Istituto centrale di statistica, l’Istat del quale resta presidente fino al 1932. Tutt’altro che provinciale, viene considerato un luminare del secolo scorso e non solo in Italia: ha lasciato un segno indelebile al quale tutti, ancor oggi, fanno riferimento, cioè il coefficiente di Gini. Così viene chiamato il modo di misurare la diseguaglianza, quindi il rapporto tra ricchezza e povertà, in un singolo paese e su scala internazionale. Paradossalmente, un indicatore nato quasi un secolo fa è stato rilanciato, rinnovato, reso più rilevante nell’èra digitale grazie alla capacità di raccogliere ed elaborare una quantità enorme di dati. In sostanza, si tratta di un numero compreso tra 0 e 1: vicino allo zero il reddito è distribuito in modo equilibrato, più si sale più la ricchezza è concentrata in poche mani e la società è di conseguenza più diseguale. Si può fare una mappa Gini del mondo intero: si vede che l’Europa centrale e il Canada hanno il massimo di equa distribuzione dei redditi, il minimo in Sud Africa, Brasile, Cina, poi in mezzo tutti gli altri. In Italia l’indice è diventato come la fune tirata da una parte e dall’altra. Quel coefficiente non spiega tutto, è ovvio, ma abbastanza per capire dove sta andando la società.
In Italia la destra è scesa in campo contro i ricchi protetti e garantiti dalla sinistra delle Ztl (i radical chic, i bo-bo, la gauche caviar, i pariolini, insomma, le definizioni abbondano). E agita lo spettro di un impoverimento crescente a causa delle politiche di austerità imposte dagli eurocrati e dai politici asserviti ai bankster, i quali sono stati chiamati, orrore orrore, persino al governo (e dagli contro i Mario Monti o i Mario Draghi). Anche la sinistra, non solo quella radicale, ha battuto la grancassa contro il neoliberismo e il neocapitalismo (c’è sempre un neo sempre peggiore del vecchio). Parlare di povertà, dunque, è diventata una giaculatoria stantia. Ma chi vuol sfuggire ai luoghi comuni o alle bandierine ideologiche, finisce per addentrarsi in una vera babele di dati, formule, linguaggi.
Una mappa Gini del mondo: in Europa centrale e Canada il massimo di equa distribuzione dei redditi; il minimo in Sud Africa, Brasile, Cina
L’ultima sorpresa del vecchio Gini riguarda il governo Draghi. E viene proprio dal “suo” Istituto di statistica. Il rapporto dell’Istat pubblicato il 23 novembre mostra che “nel 2022 si stima che l’insieme delle politiche sulle famiglie abbia ridotto la diseguaglianza (misurata dall’indice di Gini) da 30,4 per cento a 29,6 per cento, e il rischio di povertà dal 18,6 per cento al 16,8 per cento”. Le stime includono gli effetti dei principali interventi sui redditi familiari adottati nel 2022: la riforma Irpef; l’assegno unico e universale per i figli a carico; le indennità una tantum di 200 e 150 euro, i bonus per le bollette elettriche e del gas; l’anticipo della rivalutazione delle pensioni. E qui siamo in piena redistribuzione dei redditi attraverso il bilancio pubblico. Non male, poche altre volte negli ultimi vent’anni siamo stati di fronte a un miglioramento del genere, ma l’indice statistico non è tutto. Bisogna calcolare anche l’impatto del lavoro e qui l’aumento dell’occupazione dipendente ha dato un contributo importante, e ancor più quella con contratto a tempo indeterminato. La crescita ancora una volta è la premessa per ridurre diseguaglianze e povertà, nell’ultimo biennio il prodotto lordo è aumentato come mai, consentendo un recupero del pil perduto con la pandemia. Sembra lapalissiano, così non è. Il governo Meloni insiste nel mettere al centro non la creazione di nuovo reddito nazionale, ma la distribuzione di quello che già c’è. In questo modo si trova con sempre meno risorse da spendere e sempre più gridi di dolore che salgono da ogni parte della nazione e restano inascoltati, per forza di cose.
Due anni non sono sufficienti per definire un ciclo intero. Alla fine di maggio del 2017 la Banca d’Italia ha presentato (come sempre) la sua relazione annuale conclusa dalle considerazioni del governatore. Ignazio Visco, economista da sempre sensibile ai grandi temi della società, tra i quali appunto povertà e diseguaglianza, ha messo al lavoro la suo equipe e ha chiesto loro: è vero o no che ci siamo impoveriti? L’indagine mette a confronto la situazione prima e dopo la grande crisi finanziaria, prendendo a riferimento il 2006 e il 2016, e mostra che non ci sono stati cambiamenti significativi. Proiettando ancor più indietro l’indagine, fino al 1992 quando è crollata la lira e con essa l’intero sistema politico-economico italiano, si vede che allora si è verificata una consistente riduzione dei redditi nella classe media. Poi i rapporti socio-economici non sono cambiati nemmeno durante la doppia recessione dal 2008 al 2010, più lunga e pesante di quella del ’92-’93. Eppure si sente dire esattamente il contrario.
L’ultimo rapporto Istat: siamo in piena redistribuzione dei redditi attraverso il bilancio pubblico. E l’occupazione dipendente aumenta
“Gli indici statistici non mostrano né un aumento della diseguaglianza né una scomparsa della classe media. La sostanziale stabilità negli ultimi dieci anni – ha scritto Andrea Brandolini, vice capo del dipartimento economia e statistica della Banca centrale – nasconde importanti cambiamenti nelle posizioni relative di specifici gruppi socio-demografici. In un quadro di cronica debolezza della dinamica dei redditi, la ridefinizione delle posizioni relative di intere fasce sociali – in particolare, i lavoratori rispetto ai pensionati, i giovani rispetto agli anziani – può aiutare a spiegare il diffuso senso di impoverimento e indebolimento delle prospettive future, percepito dalle persone e riflesso nel dibattito pubblico”. La stabilità è dovuta in gran parte alla elevata ricchezza soprattutto immobiliare, tra otto e nove volte il reddito nazionale. Se la ricchezza resta in cassaforte e non viene trasformata in investimenti, l’Italia sarà sempre una tartaruga chiusa nel suo guscio che si muove troppo lentamente. In ogni caso, bando alle metafore generiche, bisogna indagare tra i diversi ceti sociali e nei territori. La statistica può farlo, non è il pollo di Trilussa.
Ha sofferto di più chi aveva meno di quarant’anni, se l’è cavata meglio chi aveva più di sessant’anni. La spiegazione è semplice: i pensionati hanno mantenuto il loro reddito, chi lavora invece o ha perduto il posto o ha visto ridursi la paga durante la crisi; e poi tra i giovani c’è il più grande serbatoio di disoccupati. Dunque distribuzione della ricchezza e povertà relativa sono strettamente collegate all’andamento dell’economia: per avere più giustizia e meno povertà bisogna crescere. La conferma si trova anche nei paragoni internazionali: l’Italia negli ultimi vent’anni è il paese dove salari e stipendi sono aumentati meno, ma ciò non è vero per le pensioni, i cui trattamenti sono anche migliori rispetto a paesi del nord Europa. Sembra lapalissiano, basta il buon senso, non bisogna essere come Gini, eppure il circo mediatico politico sostiene che i pensionati stanno peggio di tutti, si chiedono i voti promettendo pensioni più alte con uscita dal lavoro prima possibile, nascondendo che così in pochi anni verrebbe a mancare la base contributiva che consente all’Inps di erogare l’assegno: i pensionati sono già 16 milioni, i lavoratori dipendenti 18 milioni, i lavoratori autonomi 5 milioni e pagano poco per le pensioni, ancora meno per i contributi sociali. L’indagine della Banca d’Italia mette in risalto che un costo pesante è caduto sugli immigrati, sono loro ad aver pagato più degli altri la crisi perdendo reddito e lavoro.
Ha sofferto di più chi aveva meno di 40 anni, se l’è cavata meglio chi aveva più di 60 anni. Eppure i voti si chiedono promettendo più pensioni
L’altra differenza riguarda il nord e il sud. L’analisi della Banca d’Italia mostra che alla frattura tra generazioni e tra professioni s’aggiunge quello territoriale. Anche questa non è una novità. “Nel 2016 la differenza nei redditi medi equivalenti tra centro nord e Mezzogiorno era di circa il 40 per cento e contribuiva per circa un decimo alla disuguaglianza complessiva a livello nazionale”, scrive la relazione della Banca centrale, ma meno evidente è il fatto che “tale divario non ha mostrato significative variazioni rispetto agli anni precedenti la crisi, nonostante il quadro macroeconomico peggiore delle regioni meridionali”. Insomma, c’è una situazione ormai incistata, una crosta difficile da rompere, è fatta di meno persone occupate, ma anche di “una minore diffusione di pensioni di anzianità o di vecchiaia ancorate a precedenti attività lavorative”. Se la composizione delle famiglie rispetto a queste caratteristiche fosse la stessa del centro nord, la differenza tra aree nei livelli della disuguaglianza interna si ridurrebbe del 70 per cento; il differenziale di reddito medio tra le aree diminuirebbe di quasi un terzo e la disuguaglianza dei redditi nel complesso del paese scenderebbe di circa un decimo. L’ultimo rapporto Svimez s’azzarda a calcolare mezzo milione di nuovi poveri nel Mezzogiorno, in seguito alla recessione prossima ventura che però non è ancora arrivata. Incrociamo le dita. La società fondata nel 1946 da Pasquale Saraceno non vuole essere pauperistica e, nonostante la forbice tra nord e sud sia il suo mantra, mette in rilievo come l’anno prossimo stia per cadere una pioggia di denaro mai vista dal piano Marshall in poi (il 40 per cento del Pnrr, ma si arriva a circa 210 miliardi di euro aggiungendo il fondo complementare), dunque, nessuno può parlare di austerità, tagli alla spesa, mancanza di investimenti. Invece, leggendo i giornali e ascoltando i talk-show si sente la solita lagna.
L’inflazione ci fa tutti più poveri: ecco un altro luogo comune pressoché inattaccabile. Se fosse vero, nei dieci anni di inflazione vicina allo zero saremmo dovuti diventare tutti più ricchi. Ma soprattutto non è vero che siamo tutti colpiti allo stesso modo. Il deprezzamento della moneta riduce i redditi fissi, non quelli variabili che in genere si aggiustano verso l’altro. Penalizzato è chi riscuote una busta paga sostanzialmente bloccata o dal contratto di lavoro o dalle condizioni dell’impresa che non consente bonus e compensazioni. I pensionati sono in parte garantiti dall’aggiornamento periodico dell’assegno (anche se non copre completamente il rialzo del costo della vita). I lavoratori autonomi reagiscono aumentando i prezzi delle loro prestazioni. La tazzina di caffè è il più quotidiano dei termometri che in genere agisce con la stessa logica dei future nel gioco della finanza: sale anticipando i rincari, non si limita compensarli ex post. E’ vero che anche il barista deve sostenere costi maggiori e solo alla fine dell’anno si potranno calcolare i risultati, ma la storia dimostra che in genere le vittime dell’inflazione sono i risparmiatori, gli operai, gli impiegati (persino quando c’era la scala mobile che oltre tutto faceva rimbalzare sempre più in alto i prezzi), mentre ne traggono vantaggio i debitori e i percettori di redditi autonomi. Anche con l’inflazione, dunque, c’è povero e povero. Meglio non dirlo a chi come i grillini aveva cantato vittoria grazie al reddito di cittadinanza; ora s’apprestano a difenderlo piazza per piazza e… boia chi molla, lo gridava Ciccio Franco nel 1970 a Reggio Calabria, lo sentiremo ancora.
Per chi non sbarca il lunario occorre un’opera da certosini, invece si è preferita la strategia del ventilatore, sostegni a pioggia
Attenzione, finora abbiamo parlato di povertà relativa, ma i poveri più poveri, quelli che non sbarcano il lunario? E’ vero che sono aumentati? E quanti sono? Passiamo così nel campo della povertà assoluta (meno di 1,90 dollari al giorno secondo la Banca mondiale, in Italia 640 euro al mese per individuo, 1.300 per una famiglia con un figlio). La Caritas dice che colpisce un milione e 960 mila famiglie, pari a cinque milioni e mezzo di persone, quasi il 10 per cento della popolazione, una percentuale enorme, forse eccessiva. La situazione è peggiore tra i giovani che tra gli anziani – rispettivamente 11,4 contro il 5,3 per cento (sembra contro-intuitivo, ma conferma l’indagine Bankitalia sulla distribuzione del reddito) – e nel sud rispetto al nord. Anche in questo caso non è tanto l’assistenza, quanto il lavoro a fare la differenza. La pandemia ha peggiorato la situazione: nel 2017 l’Istat calcolava in cinque milioni i poveri sotto la soglia assoluta, dunque le persone impoverite sarebbero mezzo milione. Un numero drammatico di bambini, donne, uomini in forte sofferenza sul quale si deve concentrare qualsiasi seria politica sociale. Occorre un’opera da certosini per conoscere le singole situazioni e intervenire. Invece, si è preferita la strategia del ventilatore, sostegni a pioggia, chi è più veloce l’acchiappa e passa la paura. Forse ne beneficia la propaganda politica, forse significa più voti, certo non si traduce in meno povertà, né assoluta né relativa. Non sfuggono al rischio dell’effimero nemmeno gli stessi miglioramenti dell’indice di Gini. Il governo Draghi ne può andare orgoglioso, invece li hanno ignorati i partiti che hanno fatto parte di quell’esecutivo. In ogni caso, restano parziali e momentanei se dipendono soltanto da sostegni, bonus, erogazioni monetarie legate alla situazione contingente. Solo un aumento dei posti di lavoro può spezzare la trappola della povertà. Sembra ovvio, ma non è così a giudicare da una politica di bilancio che destina due terzi delle risorse a tamponare le perdite passate e non gli rimane nulla per stimolare la crescita futura. Il dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica, che fa capo a Palazzo Chigi, ha pubblicato nei mesi scorsi una serie di dati sugli ultimi quarant’anni. Uno colpisce in modo particolare: il livello del pil italiano, nonostante il gran rimbalzo del 2021-22, ha raggiunto il 2019, ma è ancora nettamente inferiore a quello del 2007. I numeri spesso parlano e rivelano scomode verità.