Tra roma e bruxelles
Politiche fiscali europee troppo morbide sono un guaio anche per l'Italia
Le regole di responsabilità fiscale – ancor più se a livello sovranazionale – sono uno dei pochi scudi di cui disponiamo rispetto agli eccessi, alla presunzione, alla approssimazione e all’ansia di prestazione del potere
E due. Dopo il cambio di rotta a livello europeo, e non solo, della politica monetaria anche la politica fiscale si appresta a tornare alla normalità. La scadenza della sospensione delle regole fiscali del Patto di stabilità e crescita (gennaio 2024) si avvicina e la Commissione europea ha già avanzato una proposta di riforma di quelle stesse regole da sottoporre all’esame del Consiglio e del Parlamento europeo. Il dibattito è in corso e sembra per lo più concentrarsi – comprensibilmente - sulle implicazioni per i singoli paesi membri e per l’Unione delle proposte della Commissione. Molto meno, invece, sul perché ci troviamo oggi, a trent’anni di distanza dal Trattato di Maastricht (1992), a discutere per la quinta volta di dove e come modificare quella architettura. E discuterne non è irrilevante.
L’economista francese Olivier Blanchard ha paragonato, acutamente, le regole fiscali europee alla cattedrale di Avila: un complesso architettonico di cui è intuibile la struttura originale ma la cui coerenza complessiva si è andata perdendo via via che aggiunte, modifiche e variazioni si succedevano nel tempo. Si è passati così dalla semplicità, uniformità e rigidità di due numeri – il 3 per cenro ed il 60 per cento dei rapporti, rispettivamente, fra deficit e debito e prodotto interno lordo – alla complessità e disomogeneità e solo apparente flessibilità di una architettura i cui pilastri iniziali restavano inalterati – essendo scolpiti in un Trattato - pur diventando sempre meno riconoscibili. I risultati sono noti e, al di là delle diffuse conseguenze non intenzionali, vanno da una generica percezione di incomprensibilità del sistema – se non ai pochi addetti ai lavori – ad una concreta difficoltà di applicazione dello stesso. Esemplificata nella sua forma migliore dal cosiddetto “saldo di bilancio corretto per il ciclo” (e cioè dalla intonazione della politica fiscale una volta che la stessa sia stata depurata dall’impatto della positiva o negativa congiuntura economica). Un concetto cristallino dal punto di vista della teoria economica ma tutt’altro che semplice da tradursi in pratica (tutt’altro che semplice essendo la risposta alla domanda: in che mondo vivremmo se la congiuntura economica non fosse quella che è?). Un concetto che, inevitabilmente, ha prodotto ambiguità e contenziosi.
Il piccolo problema è che intorno a quel concetto non ruotavano solo le regole fiscali europee. Quel concetto ed altri simili – come il tasso “naturale” di interesse – sono le pietre fondanti della moderna politica macroeconomica. Tanto della politica fiscale quanto della politica monetaria. Ed è sorprendente constatare come tanto la prima quanto la seconda continuino a ruotare intorno a concetti nitidi, in astratto, ma straordinariamente elusivi se non proprio in buona misura inafferrabili dal punto di vista pratico. Non vorrei essere frainteso: la teoria economica ha fatto e continua a fare straordinari passi in avanti nella comprensione di qualcosa di molto complesso che ha a quotidianamente a che fare con i comportamenti di milioni di agenti. E senza di essa i nostri passi sarebbero molto più incerti di quanto già non siano. Ma quel che la proposta della Commissione certifica è che siamo ancora lontani dall’avere strumenti interpretativi affidabili e pronti per l’uso.
Del resto, avremmo dovuto già comprenderlo: i colpevoli ritardi e gli errori di previsione della politica monetaria e le tante impreviste conseguenze della politica fiscale degli ultimi tempi dovrebbero averci già convinto che per la politica economica dovrebbe valere quel che si dice di alcuni integratori alimentari: poco e solo quando strettamente necessario. La crisi finanziaria del 2008, quella dei debiti sovrani del 2011, l’emergenza pandemica sono esempi fin troppo eloquenti in quest’ultima direzione. Per contro, la litania dei “si doveva fare di più” di fronte a una legge di bilancio giustamente minimale è un buon esempio della nostra abitudine mentale a pensare che non spetta a noi e solo a noi affrontare la realtà quotidiana.
Sulla specifica proposta della Commissione torneremo, ma per il momento non si pensi che questi siano astrusi dibattiti fra economisti. Se lo si pensasse, si sbaglierebbe e non poco. Lungi dall’essere camicie di forza o mezzi di contenzione, le regole di responsabilità fiscale – ancor più se a livello sovranazionale – sono uno dei pochi scudi di cui disponiamo rispetto agli eccessi, alla presunzione, alla approssimazione ed all’ansia di prestazione del potere. Il fatto che quest’ultimo cerchi quotidianamente di convincerci che così non è dovrebbe farci riflettere, almeno ogni tanto.