(foto Ansa)

Lezioni dalle imprese, per i governi, contro il protezionismo di Biden

Oscar Giannino

Le associazioni confindustriali dei paesi europei sono riuscite a trovare una quadra che i governi comunitari stentano ancora a raggiungere: le richieste comuni sul prezzo del gas

Di fronte all’invasione russa, su gas ed energia come sull’intero complesso delle tensioni economiche tra grandi piattaforme continentali che ne sono derivate ogni giorno, la novità è che ci sono due Europe ben distinte. Da una parte l’Europa dei governi, che continua su molti snodi fondamentali a essere molto più divisa di quanto non dicano le sanzioni alla Russia. Dall’altra l’Europa dell’industria, le cui associazioni nazionali da mesi parlano la stessa lingua e chiedono le stesse cose, ai rispettivi governi e alle istituzioni europee.

Non avveniva prima: le industrie nazionali europee sono in realtà molto interdipendenti, ma la competizione tra quelle tedesche, italiane e francese è molto forte ed è dovuta ai diversi pesi che Russia, Cina e Usa hanno rispettivamente nei loro mercati di sbocco. Per questo, nei decenni le posizioni diverse venivano annegate poi in documenti comuni in cui si evitavano i temi divisivi. Ma l’esplosione dei costi energetici, sia pure in presenza di dipendenze dal gas russo diverse, la penuria di semilavorati essenziali a primarie filiere dell’industria in tutta Europa, lo spettro realistico che dalla penuria si passi al peggio se la Cina su Taiwan facesse come Putin Ucraina, questo tre fattori hanno posto le basi di un’unità che rompe con la tradizionale locomotiva franco-tedesca, prevalente per influenza su direttive e regolamenti preparati dalla Commissione UE, e sulle decisioni assunte dal Consiglio Ue.

 

La novità è diventata chiara all’ultimo meeting di Business Europe, l’associazione-ombrello di 40 federazioni industriali nazionali europee, tenutosi a Stoccolma a fine novembre. E poi all’ultimo trilaterale delle Confindustrie di Italia, Germania e Francia, avvenuto a Roma l’1-2 dicembre scorso. Il documento finale di Business Europe ha avuto una gestazione travagliata proprio sul punto che ha registrato sinora la peggior delusione europea, cioè l’impossibilità per la Commissione Ue di proposte efficaci sul prezzo del gas, mentre restano di là da venire le linee di riforma comuni per i mercati elettrici e il cosiddetto disaccoppiamento della remunerazioni dell’energia prodotta da rinnovabili e no.  

 

Il Documento comune dell’industria europea bocciava di fatto il primo tetto UE teorico al gas, macchinosissimo come applicazione e fissato a prezzi stellari. Per invocare invece “una soluzione rivoluzionaria europea per contrastare l’impennata nei prezzi dell’energia e per far sì che l’Europa rimanga una destinazione attraente per le attività produttive”, aggiungendo che “di fronte alla sopravvivenza dell’industria a rischio, divergenze e individualismi non devono vincere sulla necessità di una solidarietà europea”. La sferzata ai veti dei governi di Germania e Olanda non era facile da digerire e sul testo si è trattato a lungo, ma alla fine è stato approvato all’unanimità: spezzare il mercato unico con divari di prezzo energetico ancor più elevati di quelli pre-Ucraina non conviene neanche ai tedeschi, che contano sulle forniture dall’industria italiana. Al trilaterale italo-franco-tedesco un nuovo passo in avanti, la voce unanime sull’Inflation Reducion Act e sul Chips Act di Biden, e sulle materie prime essenziali di cui l’Europa è povera (terre rare e non solo). Il primo impregnato di buy american protezionista che con 369 miliardi di dollari spiazza  le produzioni europee. Il secondo con 53 miliardi di dollari promuove il made in USA dalla ricerca fino al commercio estero di ogni singola componente di microprocessori avanzati e nanotecnologie: contro la Cina ma anche colpo serissimo ai macchinari prodotti dall’industria UE integrando componenti e tecnologie USA, e che risulterebbero inesportabili senza deroga USA. Su queste partite le tre maggiori manifatture europee hanno chiesto alla UE una soluzione “game changer”: creare “nuovi strumenti finanziari comuni per fronteggiare una sfida tanto rilevante per le nostre “industrie”. Non lo si è voluto definire “fondo UE” perché i tedeschi hanno preferito un’espressione più anodina, ma i “nuovi strumenti finanziari comuni” quello sono.  Le industrie europee non credono che Berlino possa far da sé in Cina, non seguono la tentazione di Parigi di rispondere al protezionismo USA con protezionismo UE. C’è una consapevolezza antinazionalista matura: se l’Europa non è capace di stanziare risorse comuni per soluzioni prioritarie paragonabili a quelle USA, la forca del gas russo si replicherà colpendo tutti.

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