Né più poveri né più ineguali
Il ritorno del ceto medio. Un'indagine sull'Italia di oggi
L’occupazione ai massimi dal 1977, le diseguaglianze che non sono aumentate, gli interventi pubblici imponenti in risposta alla crisi dovuta alla pandemia. Le conclusioni pauperistiche di Piketty erano quantomeno esagerate. E la nuova destra ha trovato il suo (largo) bacino di consenso
Un secolo fa scosse l’Europa e il mondo intero, mise in ginocchio la borghesia, manganellò la classe operaia, marciò su Roma; la ribellione delle masse fu soprattutto la ribellione del nuovo ceto medio che, considerato come una poltiglia amorfa dagli ideologi ottocenteschi, conquistò il potere e, forgiato dalla Grande Guerra, scatenò il Grande Massacro. Settant’anni fa divenne il pilastro politico e la maschera ideale del modello americano: era il 1951 quando Charles Wright Mills pubblicava “Colletti bianchi” e spalancava le menti sulla nuova società. Ancora un decennio, poi anche in Europa si gonfia la pancia sociale della democrazia. In Italia è soprattutto Giuseppe De Rita a teorizzare la “cetomedizzazione”: non solo colletti bianchi, anche tute blu, operai che diventano padroncini, mezzadri che si fanno artigiani, contadini che affollano le metropoli e aprono il negozio all’angolo della strada.
Il trentennio d’oro della globalizzazione ha cetomedizzato l’Asia, l’America Latina e, sia pure in misura minore, l’Africa, con esiti contrastanti. In Russia il comunismo non ha capito quella che il marxismo ortodosso bollava come “non classe” ed è imploso, in Cina il regime è stato costretto a una capriola ideologica pur di conservare il potere. L’intero Novecento, dall’inizio alla fine, con i suoi orrori e i suoi trionfi, può essere raccontato come il secolo della classe media. Con l’aprirsi del Secondo millennio – sostiene un ormai radicato senso comune – è cominciata la sua decadenza, la società viene liquefatta dalla tecnica, prevale l’ultimo uomo senza più valori se non sé stesso, e l’ideologia che aveva armato la volontà di potenza dei piccoli borghesi accompagna il loro suicidio. Ma è davvero così? Oppure questa escatologia sociologica nasconde un’altra mutazione, perché il ceto medio si trasforma, non scompare, tutt’altro: si agita, si ribella, rivendica, pretende, vota per lo più contro tutto e tutti, poi torna al centro del gioco politico.
La scelta di Giorgia
Lunedì 5 dicembre i parlamentari che ascoltavano Fabrizio Balassone, incaricato di esprimere il parere della Banca d’Italia sulla legge di Bilancio, hanno capito quel che era rimasto fino ad allora sotto traccia: la classe media ha preso Palazzo Chigi con grande scorno della presuntuosa borghesia e con una bella batosta per la classe operaia. Nessuno può sostenere che il dottor Balassone sia un operaista, un marxista, un comunista dell’ultima ora. E’ un pacato economista della Banca d’Italia e pronuncia parole pacate. Eccole: “Le misure non connesse con l’emergenza energetica hanno comunque una dimensione non trascurabile, con effetti netti non necessariamente nulli sul prodotto e sulla distribuzione del reddito. Alcuni di questi interventi presentano aspetti critici che la Banca d’Italia ha più volte segnalato in passato: la discrepanza di trattamento tributario tra lavoratori dipendenti e autonomi (e, all’interno di questi ultimi, tra contribuenti soggetti al regime forfettario e contribuenti esclusi) risulta accresciuta; le disposizioni in materia di pagamenti in contante e l’introduzione di alcuni istituti che riducono l’onere tributario per i contribuenti non in regola rischiano di entrare in contrasto con la spinta alla modernizzazione del paese che anima il Piano nazionale di ripresa e resilienza e con l’esigenza di continuare a ridurre l’evasione fiscale”. Il governo, insomma, ha compiuto una redistribuzione del reddito nazionale più netta rispetto al passato, per alcuni la pacchia è finita, per altri ricomincia adesso.
La cetomedizzazione politica era la specialità della Democrazia cristiana, la sostanza della sua arte di governo, segnata, però, dalla cultura della mediazione; la Dc è stata brava a spalmare il burro un po’ ovunque, quando ce n’era abbastanza. Adesso avviene una scelta sociale senza mezzi termini. La nuova destra gioca sulle aspettative decrescenti, titilla la frustrazione, trae vantaggio dalla disaffezione verso il sistema politico e dal discredito riservato all’élite. E’ una rottura che rimanda alla questione chiave della politica: chi rappresenta chi? Il Pd ha voluto rappresentare la fascia alta del mercato del lavoro trascurando il resto; il M5s guardava ai nuovi ceti digitali e ha finito per diventare il partito degli assistiti; la Lega resta il sindacato delle partite Iva padane; Forza Italia, dimenticata la “rivoluzione liberale”, è la corte di re Silvio. (segue a pagina due)
Fratelli d’Italia invece ha raccolto il brontolio della più piccola borghesia con l’ambizione di costruire un’alleanza tra establishment e anti establishment, tra nazione e popolo. E’ già successo, con risultati disastrosi.
C’è chi non crede alle fosche previsioni
Con la crisi finanziaria del 2008-2010 è diventato alla moda scrivere e pontificare sul collasso della middle class, a cominciare dagli Stati Uniti: là dove più che altrove è andata di pari passo con la democrazia, rischia oggi di cedere alle pulsioni autoritarie. Nel 2012 George Friedman, nato György Friedman, imprenditore di origine ungherese, politologo e fondatore di Stratfor, la piattaforma di informazione su intelligence e geopolitica, scrive: “Siamo di fonte a un cambiamento strutturale in cui la classe media, non per pigrizia o stupidità, sta scivolando verso il basso in termini di condizioni di vita”. L’aspettativa di redditi reali sempre crescenti è radicata nella cultura americana, quindi è in corso un capovolgimento del senso comune; Paul Krugman l’aveva paventato in anticipo e allora sembravano astrusità da premio Nobel. In quello stesso 2012 in cui Mario Draghi pronunciava il suo “whatever it takes”, c’era però chi non condivideva le fosche previsioni: i francesi Dominique Goux ed Éric Maurin nel loro libro “Les nouvelles classes moyennes”, invitavano a distinguere tra realtà del declassamento e paura del declassamento, mettendo a nudo le mistificazioni che intorno a tale timore si stavano costruendo. Prendendo in esame diversi parametri (tasso di disoccupazione, salari medi, rendimento dei titoli di studio sul piano lavorativo, mobilità verso l’alto o il basso della scala sociale, opportunità di ascensione sociale rispetto ai genitori, situazione abitativa), gli autori constatavano una fondamentale tenuta delle classi medie, più protette rispetto sia ai ceti popolari sia alle classi superiori. Esistevano ed esistono ancora molti pericoli, ma non giustificano la posizione vittimistica di queste categorie intermedie. In Italia un libro uscito nel 2010 per il Mulino, “Restare di ceto medio”, a cura di Nicola Negri e Marianna Filandri, confermava la tenuta sociale, nessun declassamento, piuttosto “una crisi delle condizioni di costruzione di una società di ceto medio in assenza di cedimento della classi medie”.
Maurizio Franzini, professore di Politica economica alla Sapienza di Roma, membro del consiglio dell’Istat, che ha presieduto tra l’agosto 2018 e il febbraio 2019, ha studiato insieme ai suoi collaboratori il periodo che va dal 2002 al 2018 e ora sta lavorando sull’ultimo triennio, mettendo insieme i dati e la loro interpretazione. I risultati verranno fuori nei prossimi mesi. Un punto fermo è che la consistenza numerica della classe media italiana non è variata di molto: “Possiamo dire che la notizia della sua scomparsa è quantomeno esagerata. Anche la quantità di ricchezza nazionale detenuta è rimasta attorno al 15 per cento del totale. Il cambiamento forse più rilevante che abbiamo osservato risiede piuttosto nell’origine della ricchezza. Fino a una generazione fa era frutto in larga parte dei risparmi accumulati nell’arco della vita, oggi invece la quota prevalente della ricchezza è frutto di eredità”, spiega. Più che per altre categorie il ceto medio è un insieme eterogeneo, la cui frontiera tra ricchi e poveri, tra privilegiati ed emarginati, tra emergenti e sommersi, è estremamente porosa. Se prendiamo un cinquantenne che si può definire piccolo borghese, oggi utilizza il fieno messo in cascina dai suoi genitori e questo si riflette in ogni campo. In attesa di dati omogenei e scientificamente significativi, si può affermare che fino alla pandemia quell’idealtipo ha mantenuto il livello di consumi, compresi i voluttuari, a scapito del reddito e dei risparmi. Il rischio è che passi a intaccare anche il grande serbatoio della ricchezza, cioè il patrimonio immobiliare.
Le indagini della Banca d’Italia confermano che “gli indici statistici non mostrano né un aumento della diseguaglianza né una scomparsa della classe media”, sottolinea Andrea Brandolini, vice capo del dipartimento economia e statistica che studia da trent’anni la distribuzione della ricchezza e non è d’accordo con le conclusioni pauperistiche del celebrato Thomas Piketty. L’Economist scrive che in Italia dal 2000 ad oggi professionisti e manager sono passati dal 34 al 44 per cento del totale degli occupati, una espansione trainata dai servizi e dalle nuove tecnologie, ma forte anche nell’industria manifatturiera (dal 29 al 35 per cento), nel commercio (dal 12 al 15 per cento). Anche gli odierni allarmi sulla nuova rovinosa recessione sono quanto meno prematuri, negli Stati Uniti l’occupazione continua a correre, in Italia supera il 60 per cento e raggiunge una quota record dal 1977, quando l’Istat ha cominciato a misurarla. Alla crescita dei posti di lavoro fa da pendant una caduta dei redditi e della posizione sociale? I dati non lo dimostrano. Attenti anche ai “falsi amici”: si sente dire che con il Covid-19 è aumentata la povertà assoluta, per il circo mediatico-politico è una gran notizia, per uno statistico è un grande abbaglio, se la povertà viene misurata in base al consumo, ebbene durante il lockdown nessuno ha consumato. La statistica, tuttavia, può essere menzognera e più dei numeri contano le percezioni, le attese e i miti che alimentano la politica, a cominciare dal mito della proletarizzazione oggi tornato sulla bocca di tutti.
La grande proletaria
Il ceto medio irrompe sulla scena in modo prepotente dal 1915 al 1930 e la Grande Guerra è la sua incubatrice. I protagonisti sono gli ufficialetti, studenti per lo più, che rappresentano il nerbo e la guida degli eserciti. Sotto il fuoco dei cannoni diventano classe dirigente militare e con la pace vorranno farsi classe dirigente anche in politica. Troviamo qui il nocciolo duro di movimenti eversivi. Il crollo dei regimi liberali e il mancato allargamento della base sociale con l’integrazione dei nuovi ceti ha favorito la propaganda anti sistema e la radicalizzazione, a destra come a sinistra. E ha costruito il proprio mito, lievito della storia nel suo rapporto dialettico con la realtà, le forze sociali, politiche economica, come ha scritto George Mosse. “Nelle tempeste d’acciaio” (titolo del suo bestseller) Ernst Jünger, figlio di un farmacista, volontario poi ufficiale inferiore tedesco, vede formarsi la volontà e la coscienza collettiva. La battaglia diventa anche una esperienza interiore. E sul fronte opposto Giuseppe Ungaretti, volontario italiano, “nato poeta della trincea”, figlio di un operaio che dopo aver scavato il canale di Suez aveva aperto un forno di proprietà, scriveva: “Per me, per il mio caso personale, la bontà della guerra. Per tutti gli italiani, finalmente una comune passione, una comune certezza, finalmente l’unità d’Italia”. Nel periodo tra le due guerre mondiali il ritmo dei mutamenti sociali ha raggiunto una velocità e un’intensità uniche rispetto alla storia precedente. Fenomeni politici come il fascismo “sono per molti aspetti la conseguenza di una rottura delle barriere tra le classi sociali così come erano emerse in Europa nell’Ottocento, grazie al tumultuoso e massiccio inserimento delle classi medie nella vita politica”, ha scritto Paolo Sylos Labini nelle sue ricerche sulle classi sociali. (segue a pagina tre)
Un’analisi confermata dagli studi di Renzo De Felice e dai più recenti lavori di Emilio Gentile. La crisi degli anni Trenta s’abbatte anche sui piccoli borghesi: pagheranno prezzi molto alti, ma sarà lo stato a sostenerli anche negli Usa con il New Deal. Insieme al mito bellico ha avuto una funzione rilevante il mito della Grande Proletaria. Nato a sinistra con il socialista Giovanni Pascoli, passato a Mussolini, attraversa i regimi ed è curioso ritrovarlo oggi (quasi a confermare i corsi e ricorsi della storia) all’interno di quella middle class che nel secondo dopoguerra era diventata il pilastro del modello sociale tracimato, sia pur con importanti differenze, dagli Stati Uniti all’Europa occidentale.
In Italia la cetomedizzazione ha fatto passi da gigante. Il lavoro indipendente, dal 1970 agli anni 90, sale dal 15 per cento al 25 per cento del totale della forza lavoro. Questo aumento non si verifica in altri paesi industrializzati, se non dove sopravvive un’elevata quota di agricoltori e coltivatori diretti, ad esempio in Grecia. Integrati nell’occidente del miracolo post bellico, i ceti medi trasformano l’economia e la cultura, scavano più a fondo della vecchia talpa di Marx. I loro figli, i baby boomers, saranno protagonisti di una ribellione che li spinge a sinistra: studenti e operai uniti nella lotta anche se non piaceva al reazionario Pier Paolo Pasolini. A metà degli anni 70, mentre la cultura di massa porta la classe operaia in paradiso, Sylos Labini, economista controcorrente che si definisce socialista riformista, pubblica un saggio sulle classi sociali in Italia e racconta una storia tutta diversa. Il breve scritto viene considerato una bizzarria. Avrà ben altra fortuna dieci anni dopo, quando il clima politico-ideologico sarà cambiato radicalmente. Le tabelle elaborate da Sylos, come lo chiamavano, sono semplici e chiare: nell’arco di un secolo, tra il 1881 e il 1983, la borghesia è rimasta costante tra il 2 e il 3 per cento della popolazione, le classi medie urbane sono salite dal 20 al 48 per cento nel centro-nord e dal 30 al 45 per cento nel sud, i coltivatori diretti sono crollati rispettivamente dal 31 al 6 per cento e dall’11 al 10 per cento dopo aver toccato nel mezzogiorno un picco del 36 per cento; la classe operaia è passata dal 47 al 43 per cento e dal 57 al 42 per cento nel sud, con un grande travaso dalle campagne all’industria; se consideriamo i contadini nel loro insieme, cioè proprietari più salariati, affittuari, mezzadri la discesa è naturalmente clamorosa: dal 63 all’8 e dal 51 al 19 per cento.
Volendo aggiornare lo stesso modello, oggi troviamo un vero trionfo della terziarizzazione, con una tendenza a fare da calamita anche sulla manifattura, integrando il secondario con il terziario e rendendo obsolete le tradizionali classificazioni. Tra il 1993 e il 2019, il peso dei servizi pubblici e privati sull’occupazione totale aumenta di dieci punti percentuali fino al 70 per cento, mentre quello dell’industria e delle costruzioni si riduce di sette punti al 26 per cento e quello dell’agricoltura scende al 4 per cento. Il numero dei lavoratori autonomi passa dal 29 al 23 per cento, solo in parte per effetto del minor numero di coltivatori diretti, mentre si diffonde il lavoro a tempo parziale fino al 19 per cento tra tutti gli occupati e al 33 per cento tra le donne. La grande novità per l’Italia è che entrano in scena i lavoratori stranieri passati da una quota insignificante negli anni 90 a oltre il 10 per cento dal 2014 in poi, soprattutto nella fascia bassa del mercato del lavoro (circa la metà dei lavoratori immigrati ha al massimo la licenza media). Sono loro i nuovi proletari. Tutti questi cambiamenti hanno un impatto, socio-culturale e politico, profondo.
L’età dell’ansia
Leggendo analisi e documenti degli anni 50, 60 e 70, viene da pensare che il ceto medio sia da sempre in lutto, attraversato da un rischio permanente di impoverimento ed emarginazione, un piagnisteo che si capisce meglio considerando che non basta avere redditi intermedi, è essenziale una dimensione soggettiva: prima di essere ceto medio ci si sente ceto medio, sono in gioco identità sociale e appartenenza; significa considerarsi integrati, seguire un percorso stabile di miglioramento della propria condizione. E’ essenziale il buon funzionamento dell’ascensore sociale, che fa salire anche l’operaio il quale accresce regolarmente la propria busta paga e usufruisce di un welfare state efficiente e a buon mercato, quell’operaio che vuol dare ai propri figli un’istruzione di alto livello, e la sera si siede a tavola pensando di non essere né ricco né povero, ma di trovarsi proprio nel mezzo. Negli Stati Uniti, dove la divisione in classi è sempre stata meno rigida che nel Vecchio Continente segnato dal retaggio medievale, era questo il piedistallo dell’American Dream. Finché la macchina non si è inceppata, tra “crisi fiscale dello stato” e “finanza selvaggia”. Forconi, gilet gialli, grillini, il populismo di destra e di sinistra: l’onda di marea diventa uno tsunami quando da Wall Street a Pechino (per non parlar di Roma e Milano) è tutta una cacofonia sul collasso del capitalismo. Ma se il capitale si suicida che fine fa il ceto medio?
In Europa, e ancora di più in Italia, la crisi 1992 segna uno “spartiacque”. Crolla la lira, ma crolla anche il sistema politico che aveva portato il paese a sorpassare la Gran Bretagna e diventare la quinta potenza mondiale in base al prodotto nazionale annuo. Da allora, i redditi delle famiglie italiane hanno cessato di espandersi, ritornando addirittura sui livelli della metà degli anni 80 dopo la doppia recessione degli anni 2008-13. “Una delle maggiori economie del pianeta – scrive Brandolini – si è mostrata incapace di affrontare la fase più intensa di integrazione dei mercati mondiali e la diffusione delle nuove tecnologie informatiche e digitali, entrando in un ristagno economico ormai trentennale: secondo i dati dell’Ocse, dal 1991 al 2021 il prodotto interno lordo pro capite italiano è aumentato in termini reali di appena il 13 per cento; a parità di potere d’acquisto, esso è arretrato dall’80 per cento al 66 per cento di quello degli Stati Uniti”. Parliamo di impoverimento? E’ la stagnazione economica il suo brodo di coltura.
Se la cetomedizzazione era l’integrazione sociale in un processo di crescita considerato stabile, la de-cetomedizzazione è una frattura, ma non necessariamente un passo indietro. I risparmi restano consistenti, la ricchezza media è tra otto e nove volte il reddito nazionale annuo, il patrimonio immobiliare è cresciuto e con esso si finanziano i figli o si integrano le pensioni. Prima della pandemia, il reddito della classe media in Italia era mediamente inferiore a quello degli spagnoli e degli svedesi, ma leggermente superiore a quello degli inglesi, dei francesi e dei tedeschi. Inoltre, in Italia la classe media resta meno consistente che in Svezia, Germania e Francia, ma simile a quella del Regno Unito e più ampia di quella della Spagna. Ciò dipende anche dalla diversa altezza e conformazione della disuguaglianza sociale e di reddito. “Se consideriamo il reddito da lavoro stiamo parlando di redditi individuali compresi all’incirca tra i 15 e i 30 mila euro l’anno; volendo approssimare, per una famiglia di due adulti che lavorano, di circa 60 mila euro – stima Franzini – Altra definizione possibile è quella di considerare membri della “classe media” quanti percepiscono un reddito pari al 30-60 per cento del reddito medio del 10 per cento più ricco; in questo caso parliamo di individui con reddito da lavoro compreso tra i 35 mila e i 65 mila euro”. Fondamentale è capire come le trasformazioni del lavoro indotte dalle nuove tecnologie cambino la stessa collocazione della classe media.
I nuovi colletti bianchi
Nell’ultimo ventennio è balzato alla ribalta il ceto medio digitale, più che una versione 4.0 dei vecchi colletti bianchi si tratta di una generazione cresciuta smanettando, con categorie mentali, modi di agire, parlare, vestire, presentarsi in società molto diversi dal passato. Se la Ibm era nota per giacca, cravatta e camicia botton-down d’ordinanza, da Steve Jobs in poi trionfano jeans e t-shirt. Sono messaggi, la trasandatezza diventa una nuova divisa, non pura sciatteria. Il rifiuto del sistema serve a creare un altro sistema, anzi un intero mondo parallelo, può essere di volta in volta pre-politico e meta-politico, ma non impolitico nel vero senso della parola. Tanto è vero che oggi è questo nuovo ceto a scuotere la politica: l’etichetta general-generica di populismo nasconde altri miti, i suoi miti, dalla democrazia diretta al robot che distrugge il lavoro.
“Secondo l’interpretazione prevalente nel dibattito internazionale, la polarizzazione delle occupazioni discende dall’adozione negli ultimi decenni di tecnologie che determinano una distruzione delle mansioni più ripetitive e sostituibili con procedure automatizzate, seppur questo processo sia secondo alcuni legato allo spostamento strutturale dalla manifattura ai servizi e sia quindi di più lungo periodo”, scrive Brandolini nel suo articolo “Il lavoro prima e dopo il Covid-19” pubblicato su “La Nuova Atlantide”.
In Italia, l’aumento del peso delle professioni più qualificate e meglio remunerate appare più contenuto e circoscritto nel tempo: “Oltre a risentire dal lato dell’offerta di lavoro del grande afflusso di forza lavoro immigrata, ciò può segnalare una ricomposizione della domanda verso servizi alla persona e meno avanzati, ma anche un ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie, alle quali esse sono generalmente complementari”. Uno studio dell’Ocse ha stimato come l’Italia sia tra i paesi avanzati più vulnerabili, con un 15 per cento dei lavori ad alto rischio di automazione e un altro 36 per cento con un’elevata probabilità di essere significativamente modificati dal progresso tecnico. Tuttavia, “la paventata massiccia distruzione di posti di lavoro non sembra essersi ancora avverata”. E’ cambiato invece, e cambierà ancora di più, il modo di lavorare. Ecco, il lavoro resta il primo motore mobile della società. Nel lavoro si forgia anche identità, come ricorda Tino Faussone, il protagonista de “La chiave a stella” di Primo Levi. Per questo è sbagliato oltre che illusorio separare reddito e lavoro.
Chi è davvero favorito dalla politica economica della destra? I colletti bianchi? I piccoli proprietari? I bagnini, i tassisti, i commercianti, gli agricoltori? I lavoratori autonomi hanno un grande problema: un welfare meno protettivo rispetto ai lavoratori dipendenti. Qui bisognerebbe intervenire, sottolinea Franzini. Meno efficace oltre che confusa è la flat tax che discrimina anche all’interno delle partite Iva tra chi può contare su 65 mila euro l’anno e chi solo su 15 mila. Insomma, attenti a mettere in campo politiche inefficaci e contraddittorie sull’altare di operazioni fondamentalmente ideologiche. Ciò vale anche per quelli che possiamo chiamare i colletti bianchi digitali. Chi ha potuto raggiungere posizioni apicali conta su guadagni molto elevati anche in Italia, chi resta precario o ha una posizione più bassa nella scala produttiva non se la passa affatto bene. In Italia, secondo Brandolini, “si è fronteggiata l’emergenza sia estendendo la titolarità dei regimi previdenziali esistenti sia approvandone di nuovi, al di fuori di un quadro coerente, al rischio di introdurre disparità di trattamento e sostenendo notevoli oneri amministrativi. Questa esperienza dovrebbe far riflettere sul ruolo delle condizionalità, della prova dei mezzi e degli obbiettivi nelle politiche sociali. La stratificazione dei diritti a beneficio dell’una o dell’altra forma di assistenza può avere ragioni storiche del tutto comprensibili, ma può divenire un fattore di iniquità e può costituire un serio ostacolo alla ricollocazione dei lavoratori da un’attività all’altra, minandone la stessa accettazione sociale. L’idea di un reddito di base universale è finora apparsa affascinante a tanti, ma largamente irrealizzabile ai più. L’esperienza della pandemia le ha probabilmente fornito nuova linfa”. Una politica a un tempo saggia, equa ed efficace, calibra i propri interventi tenendo conto della grande frammentazione all’interno delle stesse categorie sociali. Vale persino per quella che veniva definita classe operaia, figuriamoci per la “classe di mezzo”.
Né più poveri né più ineguali
Il dibattito, dunque, è stato egemonizzato da un nuovo senso comune lontano dalla realtà: riassumendo, con la pandemia sono aumentate le ineguaglianze, si sono ampliati i divari sociali e territoriali, l’Italia è diventata più povera e più iniqua, i ceti medi hanno sofferto di più anche perché il lockdown ha colpito attività come il turismo in tutta la sua filiera, dai taxi ai voli aerei passando per alberghi e ristoranti, dove prevale il lavoro autonomo. Ciò sarebbe vero senza un intervento dello stato di gran lunga superiore a tutti quelli messi in campo in passato, compresa la crisi finanziaria globale del 2009, ha scritto Brandolini sull’ultimo numero del Mulino in un articolo intitolato “Pandemia, recessione e distribuzione dei redditi”. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, in Italia queste misure discrezionali avrebbero comportato spese addizionali e mancate entrate fiscali per un importo previsto pari al 10,9 per cento del pil del 2020, un valore appena inferiore all’11,7 per cento calcolato in media per le economie avanzate. Gli interventi pubblici in risposta alla crisi pandemica hanno di gran lunga superato quelli messi in campo in passato, inclusi gli interventi attuati nel 2009 durante la crisi finanziaria globale. Rispetto al 2019, il reddito disponibile pro capite reale delle famiglie è diminuito del 2,0 per cento nel 2020 ed è aumentato dello 0,6 per cento nel 2021, ma sarebbe diminuito rispettivamente del 6,9 per cento e dell’1,7 per cento senza l’accresciuto intervento redistributivo del bilancio pubblico. “Oltre a sostenere la crescita del reddito equivalente per oltre tre punti percentuali, i trasferimenti sociali non pensionistici hanno sensibilmente contenuto l’aumento della diseguaglianza e del rischio di povertà – aggiunge Brandolini – L’indice di Gini (una misura di diseguaglianza che varia tra 0 e 1) è aumentato nel 2020 di 0,4 punti percentuali giungendo al 32,9 per cento, ma sarebbe (contabilmente) aumentato di 2 punti escludendo dal reddito questi trasferimenti; parimenti, la quota di individui a rischio di povertà è rimasta praticamente ferma sul livello del 2019 al 20 per cento, anziché crescere di oltre 3 punti percentuali”. Il rischio è che l’assistenza pubblica come stato di necessità diventi assistenzialismo come scelta: ciò darebbe un vantaggio immediato ai ceti medi, destinato a rivelarsi effimero perché andrebbe a scapito dello sviluppo economico e sociale che è il vero antidoto alla “proletarizzazione”.
Quanto sia difficile tornare indietro emerge con chiarezza anche nella legge di Bilancio per l’anno prossimo: togliere il reddito di cittadinanza, il superbonus 110 per cento, il pensionamento anticipato, i trasferimenti monetari di vario tipo, tornare alla normalità fiscale, si rivela ai limiti del possibile. La forte crescita degli ultimi due anni ha aumentato gli occupati e ridotto sia pur di poco l’ineguaglianza; questa è la via, cioè aumentare il reddito prima di distribuirlo; dovrebbe essere più che mai evidente, ma è come se non fosse mai accaduto. L’agone politico resta dominato dai miti. Quella italiana è una società ineguale? Certo che lo è, la spiegazione però è più complessa di quel che si dice. Non è vero, ad esempio, che i ricchi diventano sempre più ricchi, negli ultimi anni il reddito medio dell’un per cento più opulento della popolazione è diminuito. L’Italia è più ineguale di altri paesi avanzati? Anche. Ma “le disuguaglianze di reddito sono profondamente radicate: la questione non è tanto il loro presunto inarrestabile trend ascendente, quanto l’incapacità di intaccare gli aspetti strutturali che determinano il loro inaccettabile livello”, spiega Brandolini. Premiare alcune categorie o, direbbe il politologo Joseph LaPalombara, gruppi d’interesse e ceti di riferimento politico-elettorali, non fa che alimentare rincorse e rancori, alla continua ricerca dello stregone da bruciare sulla pubblica piazza.