l'analisi
Il rapporto della destra italiana con la Bce è una questione di identità
L'indipendenza di Francoforte è uno scudo per i cittadini, non un vincolo per i governi. Le critiche errate del governo alla Banca centrale europea riguardano anche il nascente Partito conservatore
Le valutazioni e le decisioni di una Banca centrale – così come quelle di qualunque autorità – possono e, anzi, è bene che siano discusse e senza eccezioni dai cittadini. Ma il ministro della Difesa, Guido Crosetto, è persona troppo avvertita per non vedere che, stante il suo ruolo, le sue opinioni non sono facilmente assimilabili a quelle di un qualunque cittadino e quindi non ce ne vorrà se, da cittadini, discutiamo le sue valutazioni sulla condotta della politica monetaria.
È un errore – sia detto con il massimo rispetto – distinguere le scelte della Banca centrale europea in materia di tassi di interesse da quelle relative alla dimensione e alla composizione dell’attivo della stessa. Tanto le prime quanto le seconde fanno parte di una strategia di ritorno alla normalità in cui il rischio torna a essere prezzato correttamente (consentendo così ai tassi di interesse di svolgere la loro funzione primaria) e l’equilibrio della finanza pubblica torna a essere, in primo luogo, una responsabilità degli stati membri dell’area dell’euro, ferma restando la disponibilità di strumenti di intervento da parte della Bce intesi a fronteggiare situazioni eccezionali imputabili a eventi non riconducibili ai singoli paesi membri.
Soprattutto se tali eventi straordinari sono in grado di frapporre ostacoli alla corretta trasmissione della politica monetaria all’interno dell’area valutaria (strumenti di cui il Transmission protection instrument, il cosiddetto “scudo anti-spread”, costituisce l’esempio principale). Considerare “comprensibili” le scelte della Banca centrale europea in tema di tassi di interesse e incomprensibili, se non addirittura ingiustificabili, quelle invece in tema di acquisto o meno di titoli sovrani dei paesi membri è, in sé, contraddittorio. Salvo che non si immagini un mondo in cui il ritorno alla normalità – dopo un, colpevolmente fin troppo protratto, periodo di anormalità – riguardi i soli tassi di interesse ma le politiche di bilancio nazionali possano continuare a operare, in buona sostanza, in assenza del vincolo di bilancio.
Il che è esattamente quello che si teme che possa accadere. E cioè che di fronte a tassi di interesse reali tornati positivi e di fronte a prospettive di crescita ancora incerte, le politiche di bilancio di paesi a elevato debito – e segnatamente dell’Italia – non siano tali da assicurarne la sostenibilità. È francamente paradossale che l’attuale esecutivo contribuisca – certamente involontariamente – a diffondere questa sensazione dopo aver dato prova, nella recente legge di Bilancio, di voler fare dell’equilibrio delle finanze pubbliche un obiettivo di fondo della propria azione.
Si dirà – e forse con qualche ragione – che le condizioni prospettiche delle economie europee e dell’economia italiana richiederebbero margini di manovra più ampi per la finanza pubblica ma, se questo è il punto, è all’azione o all’inazione dei governi passati (nessuno escluso) che bisognerebbe guardare e non già alle scelte prese a Francoforte. Il che dovrebbe essere facile per una maggioranza guidata da un partito alla sua prima esperienza di governo. Ma la realtà è, purtroppo, che si fa molta fatica a trovare negli anni passati dichiarazioni da parte di esponenti del partito di maggioranza relativa che invitassero a una maggiore disciplina nelle politiche di bilancio. Che segnalassero come i periodi positivi servono a creare lo spazio fiscale per intervenire quando le cose si mettono male e non già per consumare ogni risorsa disponibile. In questo senso, l’attuale maggioranza – come è sempre accaduto in questa scombiccherata stagione repubblicana – paga al governo i comportamenti adottati all’opposizione.
In realtà quel che questa discussione espone è che – così come per l’opposizione – anche per la maggioranza si pone un tema di identità. Ma mentre all’opposizione basta far balenare lo scenario di un congresso – beati loro! - per pensare che il tema dell’identità possa essere risolto, al governo la cosa si fa al tempo stesso più facile e più difficile. Più facile in quanto l’identità viene comunque scolpita nella pietra degli atti di governo. Più difficile in quanto può trattarsi, a volte, di atti dolorosi. Del codice genetico di un grande partito conservatore che sia realmente tale fa parte integrante – diversamente da quanto accade sul fronte opposto – la difesa del singolo individuo dagli eccessi e dalle sregolatezze dell’esecutivo (di cui la monetizzazione del debito – e l’iniqua tassazione che ne consegue – rappresenta uno degli esempi migliori ma non l’unico). L’indipendenza della Banca centrale non è un vincolo per i governi ma uno scudo per i cittadini (e in tempi di inflazione a due cifre questo concetto non dovrebbe poi essere così difficile da afferrare).
Se l’attuale maggioranza si pone l’obbiettivo storico di restituire all’Italia un grande partito conservatore – come le comprensibilmente ampie ambizioni del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sembrerebbero suggerire – l’occasione è servita su un piatto d’argento. Anche non coglierla contribuirà a definire l’identità dell’attuale centrodestra.