Cortocircuito
Gli investimenti in nuove infrastrutture sul gas sono incompatibili con i target Ue
In base ai piani elaborati dall’Unione Europea e fatti propri dai governi europei la domanda di metano dovrebbe crollare entro il 2030 di circa il 60 per cento. E se la domanda crolla gli strumenti messi in campo rischiano di rimanere inutilizzati mentre gli impegni contrattuali diventano difficili da rispettare
Vi è un generale consenso che l’Italia abbisogni di realizzare con urgenza e in tempi brevi nuove e importanti infrastrutture di gas naturale: si tratti di rigassificatori, si sostiene sino a sei; di gasdotti dall’estero, resuscitando addirittura il famoso Galsi dall’Algeria alla Sardegna; di connessioni interne per superare le strozzature tra Sud e Nord. A queste infrastrutture deve aggiungersi la necessità di concludere nuovi contratti di importazione di metano di lungo termine per sostituire i molti in scadenza e cancellare quelli dalla Russia.
Non sembri provocatorio ma un interrogativo si impone: sono davvero necessari questi nuovi investimenti e contratti? E ancora: su chi ne graverà il costo per decine di miliardi di euro?
L’interrogativo nasce dall’evidente contraddizione – cui mai si fa cenno – tra investimenti/contratti e domanda interna di metano. In base ai piani elaborati dall’Unione Europea e fatti propri dai governi europei – il Fit for 55 del 2019 e il RePowerEu del 2022 – la domanda di metano dovrebbe infatti crollare entro il 2030 nell’Unione di circa il 60 per cento. Essendo l’Italia uno dei principali mercati non potrebbe essere da meno. Gli investimenti in infrastrutture dovrebbero quindi essere realizzati in questo arco di tempo. L’European Climate Law del 2021 ha fissato inoltre per l’Unione Europea l’obiettivo legale della piena neutralità carbonica entro il 2050. Per conseguirlo ha innalzato il target di riduzione delle emissioni nette di gas serra dal 40 al 55 per cento entro il 2030 (rispetto al 1990), aumentando la penetrazione delle rinnovabili, efficientando i consumi, cambiando drasticamente stili di vita. Questo impegno, che indica le grandi ambizioni climatiche dell’Unione, ha profonde conseguenze sull’impiego in termini assoluti di gas naturale e sul suo peso percentuale nel mix energetico europeo e nazionale.
Come risolvere questa contraddizione tra crollo della domanda e necessità di investimenti a incerta redditività, indeboliti dalla forte competizione estera e dai rischi che si traducano anche parzialmente in stranded costs? Perché va da sé che se la domanda crolla queste infrastrutture resterebbero inutilizzate e gli impegni contrattuali difficili da rispettare con pesanti penalizzazioni. Delle due una: o gli Stati europei ritengono che i piani per la transizione verde dell’Unione siano impossibili da perseguire, o comunque contradditori rispetto ad altre prioritarie esigenze nazionali, allora sarebbe necessario lo denunciassero apertamente realizzando gli investimenti che reputano necessari. Ovvero, ritengono che quei piani siano realizzabili con successo rinunciando così a investire e a concludere nuovi contratti di importazione, assumendosi però in tal caso enormi rischi. Seguire entrambe le vie come sta avvenendo – in assenza di una qualsiasi parvenza di programmazione energetica di lungo periodo – non può che portare a dissennate perdite di denaro pubblico o a scarsità di offerta che procurerebbe non minori danni.
Alberto Clò, direttore rivista Energia