Foto Epa, via Ansa

La Russia paga il price cap sul petrolio e ce n'è un altro in arrivo

Federico Bosco

Secondo l’Helsinki Center for Energy and Clean Air Research, la misura messa in atto dall'Unione europea sta costando al Cremlino 160 milioni di euro al giorno

L’energia doveva essere l’arma con cui Vladimir Putin avrebbe piegato l’Europa e obbligato i governi ad abbandonare l’Ucraina per imporre una “pace” secondo i desiderata del Cremlino. Dopo dieci mesi dall’inizio della guerra, la minaccia energetica di Mosca non terrorizza le cancellerie europee mentre le finanze russe subiscono le conseguenze di un 2022 in cui il paese ha distrutto la propria reputazione di fornitore di idrocarburi e perso i suoi mercati più profittevoli.

   

Martedì il ministro delle finanze russo Anton Siluanov ha dichiarato che il deficit di bilancio dell’anno scorso è arrivato a 45 miliardi di dollari, pari al 2,3 per cento del pil. Prima dell’invasione dell’Ucraina la Russia prevedeva un surplus. Siluanov ha detto che “tutto sta andando secondo piani”, ma sono le stesse previsioni del Cremlino a stimare per il 2023 un calo delle entrate da petrolio e gas del 23 per cento. Con l’embargo dell’Unione europea sul petrolio russo e il price cap del G7, dal 5 dicembre i paesi occidentali hanno iniziato a sanzionare la principale fonte di entrate di Mosca, con ottimi risultati: secondo l’Helsinki Center for Energy and Clean Air Research, il price cap sta costando al Cremlino 160 milioni di euro al giorno.

  

Mosca inizialmente ha minacciato di non vendere petrolio a chiunque aderisca al price cap, ma questa lista è composta solo da paesi occidentali che hanno già deciso di non comprare petrolio russo con l’embargo. India e Cina, che non hanno aderito alle sanzioni e sono diventati i principali acquirenti di greggio russo, comprano barili a prezzi molto più bassi del tetto (circa 40 dollari contro 60). Settimane fa il governo russo diceva che per compensare il minore export di prodotti petroliferi in Europa, a causa dell’embargo che entrerà in vigore a febbraio,  la Russia  aumentato la produzione di petrolio.  Poi hanno minacciato un taglio della produzione per reagire al price cap. E adesso il ministero dell’Energia russo vuole introdurre norme per limitare gli sconti sul prezzo dell’Ural. La realtà è che Mosca non sa cosa fare perché può fare ben poco, se non continuare a svendere il futuro dei russi per finanziare le visioni imperiali di una leadership che sta distruggendo il capitale politico ed economico costruito in oltre vent’anni.

   

Tuttavia, le sanzioni pongono nuove sfide anche a chi le impone. Attualmente l’Ue, il G7 e l’Australia hanno stabilito che chiunque voglia accedere ai servizi finanziari occidentali nel settore del commercio marittimo di petrolio potrà farlo solo dimostrando di comprare il petrolio russo a meno di 60 dollari al barile. A partire dal 5 febbraio queste restrizioni saranno applicate anche ai prodotti raffinati (come diesel, nafta, etc.), ma ancora non sono chiari i meccanismi e le conseguenze di questa ulteriore misura.

   

Secondo un funzionario del G7 ascoltato da Bloomberg, i sette governi stanno negoziando l’implementazione di due diversi price cap: uno per il greggio e uno per i prodotti raffinati, ma introdurre un tetto al prezzo sui prodotti petroliferi è per certi versi più complicato. I prezzi infatti sono diventati molto più volatili, con diesel e cherosene venduti a cifre più alte. La fonte consultata da Bloomberg afferma che i funzionari della Commissione europea temono un vuoto di offerta del diesel (con il conseguente aumento dei prezzi), nel G7 invece si ritiene che il mercato sarà abbastanza flessibile da adattarsi senza choc. Come è accaduto con il greggio, il cui prezzo è sceso dopo l’intrudizone del price cap. In base a questa lettura il diesel russo, venduto in Europa, troverà acquirenti in America Latina e in Africa, mentre l’Europa si rivolgerà al Medio oriente e agli Stati Uniti, che attualmente forniscono diesel all’America Latina e all’Africa. Descritto così appare come una semplice riorganizzazione delle rotte dell’Atlantico, ma anche se tutto dovesse andare in questo modo, ciò significa impegnare le navi più a lungo per coprire distanze maggiori, con un aumento dei costi logistici sia a causa dell’aumento dei giorni di viaggio che della carenza di navi disponibili. Il rischio è un’altra pressione sui prezzi.

    

Ma ciò nonostante, l’Europa sta per entrare nel secondo anno di guerra senza paura e con molta più consapevolezza rispetto all’anno scorso, quando previsioni macroeconomiche come quelle di Goldman Sachs parlavano di recessione. Adesso la nota banca d’affari statunitense ha rivisto le proprie stime sul 2023 e, pur stimando una crescita debole, si parla appunto di crescita e non più di recessione.

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