riformismo dimezzato
Il problema non è l'inflazione di oggi, ma i tassi di domani
Infuria il dibattito sull’aumento dei prezzi. Ma per Fed e Bce il dilemma è come difendere i redditi più bassi
Tutti gli anni la prima settimana di gennaio si tiene la conferenza annuale degli economisti americani e di tutte le università internazionali che assumono le nuove leve di giovani professori sul mercato americano. Anche se dopo il Covid i colloqui di assunzione sono stati trasferiti online, la conferenza è il momento più eccitante per presentare le nuove idee e rimane un’occasione unica per vedere dove sta andando la professione.
L’inflazione è stata ovviamente il tema di elezione di quest’anno su cui si sono esercitati sia i grandi nomi dell’economia che negli anni 80 e 90 hanno scritto centinaia di articoli o interi libri sull’inflazione sia i giovani economisti che magari hanno fatto la tesi di dottorato sull’inflazione e però negli ultimi 10 anni non hanno avuto mai l’occasione di parlarne. Il programma della conferenza degli anni scorsi era tutto rivolto a spiegare temi quali la curva di Phillips piatta (spiegare perché contrariamente alla teoria negli ultimi 10 anni abbiamo avuto crescita senza inflazione) o la stagnazione secolare ovvero perché i tassi di interesse sono zero o negativi da 2 lustri. Quest’anno è tutto al contrario: il dibattito è sulle origini dell’inflazione, ovviamente su come contrastarla e infine sui suoi effetti su persone e imprese.
C’è chi pensa che le origini dell’inflazione sostanzialmente siano di offerta (la disruption delle supply chain della manifattura durante e dopo il Covid) e chi pensa invece che l’origine sia da parte della domanda ovvero del troppo denaro pubblico riversato nell’economia durante il Covid. In Europa, ma non negli Stati Uniti, il principale choc di offerta è l’aumento del costo dell’energia ma il blocco delle supply chain della manifattura c’è stato per tutti (microchip e non solo, microchip ancora adesso) e ha causato un aumento dei prezzi dei prodotti con componenti importati. All’opposto, negli Stati Uniti, ma non in Europa, ci fu un acceso dibattito al tempo del Covid in cui un importante economista democratico, Larry Summers, ministro del Tesoro con Clinton e direttore del consiglio economico nazionale con Obama, sosteneva che l’entità del sussidio pubblico era esagerata e avrebbe provocato uno choc di domanda.
Le opinioni si differenziano inoltre su chi pensa che dopo questo episodio di inflazione tornerà un periodo di bassi tassi di interesse strutturali come sono stati quelli degli ultimi 10 anni e chi pensa invece che quella epoca sia finita e il debito pubblico definitivamente più alto in tutto il mondo (in media del 35 per cento) porterà a tassi di interesse stabilmente più alti mentre gli investimenti militari e sociali aumenteranno e la demografia avversa determinerà una discesa dei risparmi.
L’inflazione dei prodotti di consumo sta cominciando a scendere, mentre quella dei servizi continua ad aumentare. La ragione è che i colli di bottiglia dell’offerta dovuti al Covid e alle difficoltà di esportazione delle merci stanno rientrando: gli indici basati sui tempi e costi di trasporto via nave stanno tornando ai livelli pre pandemia ma non ancora del tutto. E’ vero che il 2022 finirà inaspettatamente con una ripresa del commercio mondiale anche maggiore di quella del pil, ma ci sono grandi incertezze sulla possibilità che la Cina riduca di molto il suo peso nel commercio mondiale nei prossimi 5 o 10 anni e magari nella lenta riorganizzazione delle supply chain ci saranno altre pressioni sui prezzi. Per alcuni prodotti non tecnologici e per l’assemblaggio gli Stati Uniti si stanno già da tempo spostando verso il Messico che certo però costa di più della Cina.
Inoltre se guardiamo agli altri due mercati fondamentali, che sono quelli della casa e quelli del lavoro, ci sono ragioni per temere che l’inflazione possa continuare a correre: la disoccupazione sta al 3,5 per cento negli Stati Uniti e la domanda di lavoro corre pure in Europa (anche in Italia dove siamo al massimo storico dell’occupazione e le previsioni di assunzione delle aziende sono molto buone). Da questo punto di vista, l’Europa è favorita: tendenzialmente il mercato dei mutui per la casa è meno importante da noi, tanto è vero che la Fed per influenzare i tassi compra (il famoso Quantitative easing) e ora invece vende (Quantitative tightening) mortgage-back securities ovvero titoli basati su mutui per l’acquisto di immobili e i salari dei lavoratori americani aumentano più rapidamente con l’inflazione. I lavoratori americani cambiano più spesso lavoro e nel farlo ottengono aumenti salariali e in generale i salari negli Stati Uniti hanno una componente variabile individuale maggiore mentre quelli europei hanno una componente fissa maggiore, sono legati da contratti pluriennali e non stanno aumentando.
Su una cosa sono tutti d’accordo: che la Fed – e più ancora la Bce – ha tardato a intervenire e che più che all’inflazione e ai tassi di interesse presenti bisogna guardare a quelli attesi in futuro. Il problema è: attesi quando? Se guardiamo a un anno o due è chiaro che le banche centrali devono ancora intervenire per portare i tassi almeno temporaneamente sopra il valore del tasso naturale che è stimato tra il 2 e il 3 per cento. Se guardiamo a 5 o 10 anni è molto meno chiaro. Il mestiere delle banche centrali è difficile perché oltre alle centinaia di variabili di cui tenere conto è complicato isolare gli effetti della politica monetaria da tutto il resto che ti circonda e, secondo un ultimo studio, ti puoi aspettare un effetto della politica monetaria restrittiva sull’inflazione dopo circa un anno dal momento in cui la metti in atto e un effetto negativo sulla crescita e sulla disoccupazione dopo due anni e mezzo. Su una seconda cosa sono tutti d’accordo: che l’inflazione ha effetti importanti sulla disuguaglianza perché colpisce in maniera più pesante gli individui più poveri a reddito fisso che consumano prevalentemente beni di prima necessità e che hanno capacità limitate di difendere i propri risparmi. Quindi sconfiggere l’inflazione è interesse primario dei lavoratori a basso reddito e di chi li difende.
Per venire alle polemiche nostrane, i governi di tutto il mondo sono liberissimi di dire quello che vogliono sull’inflazione, lo hanno sempre fatto e sempre lo faranno. E’ una perdita di tempo convincerli che le banche centrali hanno un insieme di informazioni tecniche superiori per prendere decisioni disinteressate. Se però i governi vogliono difendere i lavoratori a reddito fisso dovrebbero essere particolarmente interessati a sostenere le banche centrali nel sconfiggere l’inflazione. A meno che non abbiano altre costituency da difendere, ma questo è un altro discorso.
sindacati a palazzo chigi